Contributo alla zonazione sismogenetica dell'Appennino meridionale
PE98 - Progetto 5.1.1
UR UNI NA, responsabile: A. Cinque
a cura di Aldo Cinque & Alessandra Ascione
12 ottobre 1999
Il contributo della nostra unità di ricerca è stato indirizzato alla definizione del quadro cinematico-strutturale della regione attraverso la individuazione e caraterizzazione, su basi stratigrafiche e geomorfologiche, di strutture tettoniche ad attività recente. Un lavoro di dettaglio è stato condotto nell'area che dalla Piana del Volturno fino alla zona del Matese-Sannio, che è sintetizzato nella Fig. 1 mediante la rappresentazione delle faglie riconosciute come attive nell'intervallo Pleistocene medio-Attuale (senza distinzione sull'età della più recente riattivazione).
Ad una scala più ampia, i dati prodotti nell'ambito del progetto sono stati integrati con quelli editi ed inediti derivanti da studi sia precedenti che paralleli al PE e condotti dal gruppo di Geomorfologia e Geologia del Quaternario del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università Federico II di Napoli (A. Amato, A. Ascione, P.P.C. Aucelli, C. Caiazzo, N. Robustelli, P. Romano, C. Rosskopf, F. Scarciglia e N. Santangelo). Ciò ha consentito di elaborare, nell'ambito del progetto 5.1.2, la CARTA DELLE FAGLIE TARDO-QUATERNARIE DELL'APPENNINO MERIDIONALE (Fig. 2) con la relativa tabella che riassume le informazioni disponibili per alcuni dei lineamenti.
Riguardo alle carte di Figg. 1 e 2 va sottolineato che le strutture mappate rappresentano in alcuni casi singole faglie, in altri casi sciami di faglie subparallele che per motivi di scala non potevano essere rappresentate singolarmente. Nei casi di questo secondo tipo si è marcata la faglia che, all'interno dello sciame, ha prodotto i rigetti maggiori e/o che presenta maggiore continuità e lunghezza. Sono state mappate con identico simbolo sia faglie che hanno prodotto rigetti di una o alcune centinaia di metri, sia faglie con rigetti tra il metrico ed il decametrico; dettagli circa l'entità dei rigetti prodotti ed i ritmi della fagliazione sono reperibili nella tabella allegata alla carta della Fig. 2.
Va anche osservato che la mappatura realizzata è certamente lacunosa e di dettaglio disomogeneo. Per ciò che concerne la carta di Fig. 2, ciò dipende innanzitutto dal fatto che per diversi e vasti settori dell'Appennino meridionale (soprattutto nelle aree esterne della catena), non sono mai stati effettuati studi geomorfologici e stratigrafici di dettaglio adeguato agli scopi di questo lavoro. Inoltre, il riconoscimento geomorfologico/stratigrafico delle faglie recenti è proceduto con metodi e limiti molto diversi nei differenti scenari litologici ed orografici in cui si articola l'Appennino meridionale. In particolare, esso ha dato buoni risultati nelle zone dove ricorrono formazioni tardoquaternarie e superfici deposizionali sulle quali i disturbi morfologici creati dai fagliamenti sono "facilmente" rilevabili. Sebbene in misura minore, possono considerarsi soddisfacenti i risultati ottenuti sulle aree dominate da litologie conservative quali i calcari ed altre formazioni dure. Qui i problemi incontrati sono legati alla difficoltà di riconoscere eventuali rigiochi recenti lungo scarpate che sono cresciute in massima parte per esumazione morfoselettiva di liscioni antichi (pliocenici e infra-medio pleistocenici). La mappatura delle faglie recenti è da considerarsi certamente incompleta su quelle vaste porzioni della catena che sono impostate su litologie di elevata erodibilità e franosità (gran parte delle unità terrigene), dove le scarpate create dalla tettonica recente (specie se lungo pendii o al piede di versanti di faglia più antichi) sono state rapidamente regolarizzate e dove anche la genesi di depocentri a controllo neotettonico è stata verosimilmente impedita dalla pronta dissezione delle damming structure. Un altro scenario sfavorevole alla percezione di tutte le faglie attive nel Pleistocene superiore - Olocene è quello delle aree che in detto periodo (o parte finale di esso) sono state in sensibile aggradazione, con conseguente seppellimento di eventuali gradini di faglia: esempi ne sono le pianure dei graben costieri subsidenti, le conche intramontane ancora in aggradazione, i tratti basali di versanti mascherati da falde e coni in crescita.
Tenuto conto di tutto ciò e osservando che nelle aree indagate con maggior dettaglio (ad esempio, l'area di Fig. 1) si è potuta evidenziare una rete di faglie recenti di notevole "fittezza", appare verosimile ipotizzare che la densità delle strutture recenti/attive mostrata in Fig. 2 sia inferiore a quella reale.
La distribuzione spazio-temporale della fagliazione
tardo-quaternaria
L'analisi morfotettonica regionale e gli approfondimenti di indagine locali
(includenti la raccolta ed elaborazione di dati mesostrutturali) mostrano
che le dislocazioni tardoquaternarie sono quasi sempre avvenute (almeno a
livello superficiale) lungo faglie ad alto angolo che erano presenti dal
Pleistocene inferiore-medio (in certi casi anche dal Pliocene), costituendo
delle riattivazioni di piani giacenti in modo compatibile con i campi di
stress recenti. E' da legarsi alla preesistenza di più sistemi di
faglie variamente orientati anche l'andamento zigzagante di molte faglie
tardoquaternarie. In particolare, si notano strutture mediamente orientate
NW-SE (appenniniche) che si compongono di tratti N120/150 alternati a tratti
circa E-W, nonché strutture a sviluppo medio in direzione NE-SW
(antiappenniniche) che si compongono di tratti N50/70 e tratti N110/150.
L'assetto morfostrutturale della fascia più interna dell'Appennino (zona peritirrenica) è caratterizzato da faglie normali antiappenniniche che di solito si estinguono verso NE contro lineamenti appenninici ereditati ed a tratti riattivati. Nella depressione dell'alta valle del Volturno l'estensione longitudinale sembra essere penetrata più all'interno ed aver interagito con le faglie di direzione appenninica che interessano il massiccio del Matese (alcune delle quali sono attive durante il colmamento della depressione).
Nella Campania centrale assumono evidenza faglie circa E-W che controllano la Valle del Calore beneventano e guidano collassamenti nella fascia peritirrenica tendendo ad allargare verso oriente, oltre il limite interno della Piana Campana, l'area subsidente. In particolare, nell'area ad est del limite meridionale della Piana Campana, questa tendenza è continuata anche dopo l'eruzione dell'Ignimbrite Campana, avvenuta intorno a 36 ka. Disturbi tettonici di analoga orientazione si osservano anche nell'area dell'ex avanfossa, dove condizionano il reticolo di dissezione fluviale sul plateau dei Conglomerati di Irsina e dislocano il riempimento mediopleistocenico del bacino di Venosa.
Nella zona del vulcano Roccamonfina si osservano faglie orientate E-W di modesto rigetto ed assumono rilevanza faglie ad andamento meridiano che appaiono localizzate solo a questo settore: per esse appare ipotizzabile una origine legata a fenomeni di vulcanotettonica che riattivano faglie del substrato di diversa età ed orientazione. Casi simili sembrano essere quelli di Ischia e dei Campi Flegrei (che hanno ritmi di sollevamento e fagliazione tardoquaternaria fino a centimetri per anno come medie millenarie) nonché dell'area vesuviana.
L'integrazione dei dati morfotettonici e mesostrutturali indica che, nel corso del Quaternario, le zone interne dell'Appennino meridionale sono state interessate da due eventi tettonici con direzioni di estensione diverse: NW-SE fino al tardo Pleistocene medio e, successivamente, NE-SW. Il primo evento genera i profondi graben con faglia master antiappenninica al bordo nord-occidentale che si susseguono lungo il margine tirrenico della catena (piana del Garigliano; Piana Campna; Golfo di Salerno-Piana del Sele; Golfo di Policastro). I margini nordorientali di dette depressioni sono individuati da faglie e zone di faglia ad andamento appenninico e cinematica trastensiva sinistra. Al contempo, gli alti strutturali interposti subiscono sollevamenti fino ad un massimo di 400 metri circa che in qualche caso (Penisola Sorrentina) si accompagnano a basculamenti verso NW.
L'evento più recente non modifica sostanzialmente l'assetto morfostrutturale delle zone interne. Esso determina la riattivazione in estensione di lineamenti ad andamento appenninico, talora insieme a dei segmenti circa E-W che sono interpretabili come transfer faults. Localmente si hanno evidenze di basculamenti lungo assi orizzontali di direzione appenninica e/o circa antimeridiana (piana di Alife, Golfo di Napoli; Piana del Sele; Vallo di Diano )
Durante questo secondo evento raggiunge una sostanziale stabilità la depressione della Piana del Garigliano mentre risulta sostanzialmente ridotta la subsidenza della Piana Campana (almeno a nord di Napoli). Variazioni di tendenza si registrano anche nella depressione del Golfo di Salerno-Piana del Sele, fino ad allora subsidente, subisce leggeri sollevamenti (fino a una trentina di metri) del settore emerso e subsidenza dell'offshore. Nello stesso tempo gli alti strutturali che, nella fascia peritirrenica, si alternano ai graben, registrano una sostanziale stabilità. Nel Golfo di Napoli e nella Piana Campana meridionale, infine, si registra una notevole tettonica tardoquaternaria che riattiva faglie sia NE che NW anche in connessione con eventi vulcano tettonici tra i quali quelli che determinarono la grande eruzione dell'Ignimbrite Campana (circa 36ka).
Ancora durante questo secondo evento, inoltre, si registra l'attivazione di faglie ad orientazione appenninica nella zona frontale della catena e nell'avanfossa Bradanica dove, tra l'altro, dislocano i terrazzi marini del tardo Pleistocene.
Va, infine ricordato che il secondo evento presenta direzione di estensione analoga a quella risultante dai dati sismologici (asse T dei meccanismi focali), nonché a quella risultante da misure di stress in pozzi condotte tra l'avanfossa e il margine tirrenico dell'Appennino meridionale.
Osservazioni sugli slip rate
Circa gli slip rate, gli unici dati di dettaglio (portata e frequenza dei
singoli eventi) sono quelli, ben noti, che derivano dalle trincee ING ed
ANPA sul M. Marzano e al piede del M. Pollino, che campionano solo qualcuna
delle tante strutture potenzialmente attive. Per un discreto numero di altre
faglie, gli slip rate possono essere calcolati solo come medie su lunghi
intervalli di tempo (104 - 105). Le faglie che hanno cumulato, nel corso
del Quaternario, i maggiori rigetti sono quelle che marginano i graben
peritirrenici e le conche intra-appenniniche. I primi si sono impostati nel
corso del Pleistocene inferiore; le seconde sembrano risalire al Pleistocene
medio (ma la parte più bassa del loro riempimento è datata
solo in qualche caso). Il tasso di scorrimento può essere
approssimativamente ricavato dai ritmi medi tenuti della sedimentazione in
tali depressioni. Per i graben peritirrenici, considerando la subsidenza
delle loro parti più ribassate, si ottengono valori intorno ai 2 mm/a;
tale valore andrebbe tuttavia suddiviso per il numero (ignoto) di faglie
che formano le gradinate sepolte intorno a questi massimi depocentrali. Per
le conche intramontane gli spessori deposti darebbero ritmi di dislocazione
medi intorno a 0.3 mm/a, ma questi valori sono probabilmente approssimati
per difetto sia perché l'aggradazione potrebbe non aver compensato
tutto lo slip tra depocentro e damming structure (in concomitante dissezione),
sia perché gli spessori deposti danno ragione solo della surrezione
(relativa) registrata dal più basso dei blocchi richiudenti la conca.
Con il secondo evento tettonico pare essersi verificata una riduzione dei ritmi di fagliazione, almeno nell'ambito delle fasce peritirrenica ed assiale della catena e a nord del confine calabro-lucano. Tra le evidenze a supporto di ciò vi è il modesto rigetto (non più di 20-30 metri) mostrato dalle faglie che disturbano le superfici deposizionali del Pleistocene medio (esempi: l'edificio del Roccamonfina, i terrazzi dell'alto Volturno e delle valli dell'Agri, del Sele e del Tanagro), per cui la loro attività tardoquaternaria deve essere stata o molto lenta (tra 0,05 e 0,15 mm/a, se distribuita su tutto l'intervallo) o sporadica (con crisi di ritmo più sostenuto intervallate da lunghe quiescenze). Conducono ad analoghe conclusioni anche i caratteri morfologici dei versanti di faglia che bordano le depressioni che nell'intervallo considerato funzionano come depocentri.
Concludendo si sottolinea il fatto che la quasi assoluta mancanza di studi stratigrafico-paleosimologici (trincee su linee attive) non ha consentito di caratterizzare le slip-history delle faglie segnalate con il dettaglio secolare/millenario che alcuni approcci di valutazione del rischio richiedono. Ritenendo comunque utili le informazioni sinora raccolte si è ritenuto, la scorsa primavera, di elaborare e proporre una nuova, più ricettiva Tabella (modificata a partire da quella prodotta dal gruppo Vittori) su cui fondare il database per l'archiviazione dei dati riguardanti le faglie "attive" del territorio italiano. Tale proposta di tabella, con relativi commenti ed esempi di compilazione, è stata a suo tempo inviata via E-mail a tutte le Unità operative.
Infine, un altro aspetto da sottolineare è quello della non buona coincidenza tra la distribuzione spaziale delle faglie ad attività recente e la distribuzione della sismicità storica (almeno quella dei forti terremoti). Ci sembra un aspetto meritevole di riflessione (oltre che di futuri approfondimenti) che potrebbe segnalare il fatto che molte delle linee segnate hanno una attività connotata da lunghi tempi di quiescenza (fino a plurimillenari).
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