Ing. Anna Claps Dott. Geol. Giuseppe Di Capua 2 22 2000ᆜᆟT09:16:00Z 2002ᆙᆯT11:46:00Z 2002ᆙᆯT11:46:00Z 59 16458 93811 Anna Claps Ingegnere 781 187 115206 9.2812 14 0 0

1. TIPOLOGIE DEI BENI ARCHEOLOGICI

D. Liberatore1, G. Spera1, A. Claps2, A. Larotonda2

 


1 DiSGG, Università degli Studi della Basilicata

2 Libero professionista, Potenza


 

Indice del Capitolo 1.

 

 

1. TIPOLOGIE DEI BENI ARCHEOLOGICI

1.1   Premessa

1.2   Le tipologie

1.2.1     Menhir

1.2.2     Dolmen

1.2.3     Mura megalitiche

1.2.4     Cinte murali etrusche

1.2.5     Porte ad arco etrusche e greche

1.2.6     Pseudovolte

1.2.7     Cinte murali di età ellenistica

1.2.8     Templi dorici: basamenti

1.2.9     Templi dorici: colonne singole

1.2.10   Templi dorici: colonnati intatti con architravi poggiati

1.2.11   Templi dorici: colonnati, architravi, fregi, frontoni

1.2.12   Templi dorici: doppio ordine di colonne

1.2.13   Sostruzioni

1.2.14   Terme

1.2.15   Acquedotti

1.2.16   Archi trionfali

1.2.17   Templi romani

1.2.18   Ponti

1.2.19   Teatri romani

1.2.20   Anfiteatri

1.2.21   Tipologie abitative (casa insula, domus, villa, …)

1.2.22   Colonne coclidi

1.3   Glossario

Bibliografia

 

 

Indice della Monografia

 

 

1.1 Premessa

 

Negli ultimi anni si è sentita sempre più fortemente l'esigenza di una tutela dal rischio sismico dei Beni Archeologici rispettosa dell'originaria concezione dei manufatti e perciò del loro intrinseco contenuto storico, ma anche consapevole dell'intreccio della vulnerabilità sismica con altri tipi di vulnerabilità: quella derivante dal degrado dei materiali, dai dissesti idrogeologici del complesso, dalle condizioni meteorologiche e climatiche e dall'opera dell'uomo.

Essendosi da più parti riconosciuta la necessità di intervenire usando materiali e tecniche artigianali il più possibile simili a quelli originali senza alterare lo schema statico e la natura dei materiali, risulta utile un'analisi tipologica dei Beni Archeologici che, trascurando gli aspetti artistici, si concentri su quelli più prettamente costruttivi.

Vengono individuate ventidue tipologie; l'analisi di ciascuna si articola in un'iniziale descrizione breve che delinea in modo sintetico le parti costituenti e le modalità costruttive, in una descrizione estesa e in un elenco, quasi inevitabilmente non esaustivo, di località nelle quali rimangono manufatti rappresentativi della tipologia, ben riconoscibili e isolati in quanto non inglobati in costruzioni posteriori più recenti. Tale elenco non comprende perciò quelle località per le quali si ha notizia della presenza di antiche costruzioni solo da fonti storiche o letterarie.

Talvolta il nome dato ad una tipologia corrisponde al genere di edifici che più frequentemente comprendevano al loro interno un particolare tipo di struttura, senza escludere però che questo possa talvolta ritrovarsi in altri tipi di edifici. Così, ad esempio, le terme si caratterizzano per la struttura volta, ma questa si ritrova anche in alcuni templi.

Nell'ambito di uno stesso tipo di costruzione, quale l'edificio templare dorico, sono state separate più tipologie in relazione al differente comportamento dei resti in presenza di sisma. Di conseguenza si sono citati sotto ciascuna tipologia quei siti in cui si rinvengono eminentemente quelle peculiari parti del tempio.

Non sono descritte quelle tipologie tipiche di regioni d'Italia notoriamente a basso rischio sismico quali le capanne di pietra e le costruzioni a terrazze del leccese, le frequenti costruzioni a cupola della penisola Salentina, i nuraghi preistorici e i pozzi sacri della Sardegna. Per alcune di queste è, tra l'altro, riconoscibile una forte somiglianza con tipologie prese in esame: i pozzi sardi, ad esempio, in quanto costruzioni ipogee a tholos munite di un corridoio di ingresso, richiamano le tombe etrusche coperte con pseudovolte.

 

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1.2 Le tipologie

 

1.2.1 Menhir

 

Monumenti religiosi o funerari costituiti di un grosso masso lapideo infisso nel terreno.

 

Menhir (pietrafitta) è il nome di megaliti costituiti da un blocco di pietra, generalmente grezza o irregolarmente tagliata o solo ritoccata avente forma allungata, infisso nel suolo perpendicolarmente come un grossolano e irregolare obelisco, a volte forato. Si presume che i menhir abbiano preceduto i dolmen, dei quali sono in un certo senso componenti.

I menhir, dalle forme variabili (a cilindro, a obelisco, prismatica, irregolare) non superano generalmente l'altezza di 5 m. L'erezione di un menhir non richiedeva né mezzi né manodopera imponenti. Si pensa infatti che questo, giacente orizzontalmente su tronchi, fosse trascinato da corde in prossimità di una buca, che presentava verso di esso una parete inclinata, mentre l'altra parete era diritta. Fatto scivolare il masso lungo la parete inclinata, si aumentava la trazione innalzando il masso parallelo alla parete diritta e si colmava poi con materiale solido la cavità della buca corrispondente alla parete inclinata.

 

Bari

Otranto (Le)

Giurdignano (Le)

 

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1.2.2 Dolmen

 

Grossa lastra lapidea orizzontale sostenuta da massi infissi nel terreno a formare cella quadrata (d. pugliesi) o a pianta circolare (d. siciliani).

 

Dolmen è il nome di megaliti costituiti da uno o più lastroni orizzontali sostenuti da pietre infisse verticalmente nel terreno. Le pareti verticali erano lasciate grezze o solo leggermente scalfite cosicché il contatto tra l'elemento orizzontale e gli stipiti è essenzialmente puntiforme e l'equilibrio dell'appoggio è garantito dai notevoli sbalzi laterali della pietra orizzontale rispetto alle pietre che la sorreggono. Le pietre verticali del dolmen, piantate nel terreno, venivano innalzate con la medesima tecnica utilizzata per i menhir. Successivamente si ammassava terra ai due lati e si riempiva di pietre la cavità tra i massi verticali; sulla terra di riporto e sulle pietre si faceva scorrere la lastra orizzontale, appoggiata su tronchi. Questi monumenti funerari, databili in Italia al Bronzo antico, venivano poi colmati con terra, fango e pietrame in modo da costituire un tumulo.

La struttura fondamentale dei dolmen è quella data da quattro lastre formanti una cella quadrata: tre infitte nel suolo ed un lastrone di copertura ma non mancano forme più articolate.

Il più conosciuto fra i dolmen pugliesi, quello presso Bisceglie detto della "Chianca" per via delle grosse lastre spianate come tavole ("chianche" nel dialetto locale), presenta una struttura in cui si distinguono un corridoio ed una cella (Fig. 1.1). Il manufatto, fra corridoio e cella, ha una lunghezza complessiva di 9,60 m. Il corridoio, quasi rettilineo, ha una larghezza di m 1,45 all'inizio e sempre maggiore progredendo verso la cella, dove misura m 2,12. La cella è alta, dal suolo alla facciata interna della lastra lapidea di copertura, m 1,79. Le pietre laterali della cella sono ad andamento divergente verso l'esterno sia in pianta (sono più vicine all'ingresso della cella e più distanti al fondo della cella) che in sezione (sono più vicine al livello del suolo di quanto non lo siano al livello della copertura). Lo spessore di queste pietre laterali oscilla fra i 30 ed i 40 cm. La pietra di copertura, spessa fra i 12 e i 39 cm, posa oggi sulle tre cuspidi terminali delle pietre che delimitano la cella, dando una falsa sensazione di instabilità: essa ha la superficie di intradosso orizzontale.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 1 - Bisceglie. Dolmen detto della "Chianca".

 

 

Presentano una struttura più articolata della semplice cella quadrata anche alcuni dei dolmen rinvenuti nel corso di recenti campagne archeologiche nella punta sudorientale della Sicilia, ad attestare la diffusione non esclusivamente pugliese del megalitismo.  In particolare a Cava dei Servi (Ragusa) è un dolmen formato da grandi lastre calcaree disposte ad andamento circolare: si compone di quattro lastroni infissi verticalmente nel terreno e di due blocchi parallelepipedi sormontati da lastre (ne restano tre) posizionate obliquamente in modo da formare una pseudocupola. L'ipotesi della sovrapposizione di lastre litiche inclinate sembra avvalorata dal taglio obliquo dei blocchi parallelepipedi sottostanti.

 

Bisceglie (Ba)

Giovinazzo (Ba)

Corato (Ba)

Melendugno (Le)

Minervino di Lecce (Le)

Mazzarino (Monte Bubbonia) (Cl)

Cava dei Servi (Rg)

 

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1.2.3 Mura megalitiche

 

Blocchi, come trovati in natura o rudimentalmente tagliati, di dimensioni anche dell'ordine del metro, giustapposti secondo la maniera dell'opera ciclopica o secondo quella, più evoluta, dell'opera poligonale.

 

I manufatti più antichi, definiti ad opera ciclopica, presentavano una struttura continua composta da grossi elementi (dell'ordine del metro o anche più) grezzi o rudimentalmente intagliati, accostati e sovrapposti a secco in modo da formare una massa compatta e resistente.

L'opera ciclopica non va confusa con la più evoluta opera poligonale (Fig. 1.2). In questa maniera il muro risulta dall'accostamento di blocchi sagomati in modo da avere una forma poligonale, in cui sia pure in maniera irregolare sono state spianate le facce che formano il giunto. La facciata del manufatto si presenta pertanto come un accostamento di poligoni irregolari e per questo si parla di opera poligonale. Nell'opera ciclopica il combaciamento tra i blocchi è molto meno accurato e spesso sono inseriti ciottoli di rinzeppamento.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 2 - Muro di terrazzamento in opera poligonale.

 

 

In opere di questo tipo (cinte murarie di fortificazione e poi sostegni di terrapieni, ecc.) la compattezza della pietra garantiva resistenza ai dissesti provocati da cedimenti del terreno o da offese di carattere bellico. Inoltre alla massa dei manufatti che, come detto, presentavano notevoli spessore e peso, era affidata la resistenza, vista l'assenza di malte cementanti che diversamente avrebbe determinato una resistenza molto bassa sia ai carichi verticali che alle spinte orizzontali.

 

Regione molisana

Beneventano

Frosinone

 

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1.2.4 Cinte murali etrusche

 

Blocchi dal taglio squadrato di pietra (arenarie, marmi, tufi vulcanici..) e raramente di mattoni crudi accostati a formare  mura con più o meno forte tendenza all'orizzontalità oppure mura a filari perfettamente orizzontali.

 

Le mura e le porte delle città etrusche hanno sempre un aspetto imponente: grandi blocchi di pietra calcarea, di basalto, di nenfro o di tufo connessi insieme senza malta, sono a testimoniare la genialità e l'accuratezza della costruzione nonché la grandiosità della concezione architettonica.

La tecnica è, secondo i luoghi, l'opera quadrata oppure quella poligonale; quest'ultima è usata sia per formare la doppia cortina riempita nel mezzo da blocchi più piccoli, sia per sostenere terrazzamenti. Le porte delle mura più antiche sono in genere coperte in piano con un enorme blocco monolitico, talvolta (Arpino, Falerii Veteres) hanno invece un profilo ogivale. Nel IV secolo si diffonde la porta di ispirazione greca, a due sbarramenti (pròpylon), forse senza copertura e priva ai lati di vere torri.

La pietra usata è quella locale e varia da zona a zona dell'Etruria.

Nella Tuscia inferiore (compresa tra l'attuale Toscana ed il Tevere) la pietra usata per le mura è sempre il tufo vulcanico tagliato in blocchi rettangolari di lunghezza doppia dell'altezza. Le dimensioni abituali sono di circa 1,20 m per 0,60 m. Fa eccezione Cerveteri dove sono stati utilizzati blocchi più piccoli. La struttura muraria usata è identica al sistema greco dell'emplecton ed al sistema romano dell'opus caementicium (Vitruvio, Plinio). Questi sistemi, praticamente identici, consistono nella posa in opera di due cortine di blocchi squadrati il cui spazio intermedio è riempito da una miscela di frammenti di pietre rozze e malta.

A Volterra le mura sono fatte di conci di arenaria detta localmente "panchina" secondo una tecnica che varia dall'opera poligonale all'opus quadratum e che il Lugli definisce opus quasi quadratum.

A Roselle le mura del VI sec. a. C. sono costituite di blocchi molto irregolari allineati in file orizzontali con pietre più piccole a riempire gli interstizi. L'irregolarità di questi blocchi è dovuta alla qualità della pietra che si sfalda facilmente e che non poteva quindi essere tagliata se non in strati orizzontali. Le pietre sono enormi, variano dai 2 ai 3 m di lunghezza e da 1 a 2 m di altezza. Lo scavo ha identificato anche un tratto di muro in mattoni crudi secondo la tecnica arcaica del VII secolo a.C..

A Fiesole le mura sono di pietra durissima, molto differente dal tufo vulcanico usato nella Tuscia inferiore. I blocchi furono usati, più o meno, come uscivano dalle cave o appena sbozzati tanto da far loro assumere una forma quadrata o rettangolare molto irregolare ed essere allineati in file orizzontali. Data l'irregolarità dei blocchi e la mancanza di malta, questi difficilmente combaciavano e perciò tra blocco e blocco furono inserite delle pietre a cuneo.

Ad Arezzo il materiale usato per la cinta murale è l'argilla in grossi mattoni crudi (plinti).

 

Volterra (Pi)

Roselle (Gr)

Vetulonia (Gr)

Fiesole (Fi)

Chiusi (Si)

Arezzo

Tarquinia (Vt)

Tuscania (Vt)

Roma

Cerveteri (Caere) (Rm)

Veio (Rm)

Vulci (Rm)

Palestrina (Rm)

Civita Castellana (Falerii Veteres)

Arpino (Fr)

 

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1.2.5 Porte ad arco etrusche e greche

 

Architrave monolitico orizzontale in origine e poi conci lapidei radiali disposti a formare archi a tutto sesto.

 

Le porte di ingresso nelle città etrusche avevano in origine l'architrave orizzontale monolitico come le greche dell'epoca micenaica; più tardi l'arco a tutto sesto (Fig. 1.3) con tre teste di divinità protettrici ingentilirono l'ingresso e stupiscono ancora oggi per la perfezione costruttiva e la raffinatezza stilistica.

Sappiamo che l'arco non è stato inventato dagli Etruschi, però sappiamo che essi sono stati, tra i popoli italici, i primi a girarlo con perfetto stile e sicura maestria, tanto che i Romani dovettero apprendere l'arte muraria dagli ingegneri etruschi, nel periodo regio e nei primi anni della Repubblica. Gli Etruschi furono certo i primi, fra tutti i popoli dell'antichità, ad usare l'arco con criteri matematici e con grande successo nelle loro costruzioni.

Molti sostengono che anche gli antichi Egizi conoscessero il principio dell'arco, però si deve riconoscere che il vero e proprio arco, costruito con le pietre tagliate a cuneo e la pietra chiave al centro, non appare mai nelle costruzioni egizie che invece poggiavano esclusivamente le loro pesantissime costruzioni su poderose colonne e poderosissimi architravi monolitici. Nello scavo delle loro tombe, gli Egizi sfruttavano il principio dell'arco per lo scavo delle volte a tutto sesto, spesso lavorate in roccia friabile formata di massi naturalmente e malamente connessi fra loro; tale sorta di scavo, non autorizza tuttavia ad affermare che gli Egizi sfruttassero il principio dell'arco usato dagli Etruschi.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 3 - Volterra. Porta dell'Arco (IV sec. a. C.).

 

 

Questi costruivano edifici con archi portanti a tutto sesto già nel VI sec. a. C. e ciò è provato dalla Cloaca Massima che risale a Tarquinio Prisco (616눋 a. C.) e dal carcere Mamertino.

L'unico esempio di arco della Magna Grecia è quello della Porta Rosa che si apre nella cinta muraria di Velia (antica Elea). Scoperta dall'archeologo Mario Napoli l'8 marzo 1964, è una porta del IV sec. a. C. costituita da due piedritti di arenaria tenera in opera isodoma che reggono un arco a tutto sesto in conci radiali di arenaria, sovrastato a sua volta da un altro arco di scarico.

 

Volterra (Pi)

Porta dell'Arco del IV sec. a. C.

Perugia

Arco Etrusco, III-II sec. a. C.

Velia (Elea) (Sa)

Porta Rosa del IV sec. a. C.

 

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1.2.6 Pseudovolte

 

Blocchi di pietra squadrati e disposti ad anelli concentrici in posizione via via più aggettante a formare false volte a cupola o a botte a copertura di ambienti tombali a pianta quadrangolare o, più frequentemente, circolare.

Si tratta di tombe monumentali costruite parzialmente, o per intero, attraverso blocchi squadrati e sovrapposti per cerchi concentrici di diametro decrescente così che ognuno aggetta sull'inferiore fino a chiudere il tutto con un solo blocco. Ne risulta una falsa cupola o una falsa volta. Le riseghe interne venivano lasciate oppure erano scalpellate via come succedeva anche per l'arco. A volte la stabilità era affidata anche ad un pilastro centrale (Fig. 1.4) che teneva il blocco di sommità. La resistenza del tetto a cupola non è attribuibile ai soli cerchi concentrici di pietra ma (Rohlfs, 1973) allo spesso muro esterno fatto di  pietre a secco che, funzionando da contrafforte, dà alla cupola il necessario equilibrio statico. Gli ambienti coperti da pseudovolte hanno pianta rotonda, quadrangolare e talvolta anche rettangolare; la forma rotonda è la più frequente perché più tecnicamente consona alla disposizione concentrica degli strati di pietra.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 4 - Tomba a falsa cupola.

 

 

Quelle a falsa cupola sono state trovate solo nell'Etruria settentrionale. Queste tombe imponenti sono la prima manifestazione di architettura etrusca e l'unica rimasta perché gli edifici pubblici e privati, costruiti in legname o in mattoni crudi (mattoni di argilla e paglia seccati), sono andati distrutti nella maggior parte dei casi.

Spesso sono coperte da un tumulo di terra; il tumulo può essere circoscritto da pietre o da un tamburo liscio o sagomato.

 

Volterra (Pi)

Tomba di Casalmarittimo

Quinto Fiorentino

Tomba della Montagnola

Montefortini

Tomba del IV sec. a. C.

Vetulonia (Gr)

Tumulo della Pietrera

Tivoli (Rm)

Tempio della Tosse

 

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1.2.7 Cinte murali di età ellenistica

 

Blocchi lapidei squadrati di arenarie, marmi, tufi, etc. e talvolta mattoni crudi disposti a secco secondo apparecchiature variabili dall'opera poligonale all'opera quadrata nei modi non isodomo o isodomo.

 

Le mura di età ellenistica sono le più evolute e presentano apparecchiature murarie variabili dal disegno irregolare dell'opera poligonale a quello regolare dell'opera quadrata.

L'opus quadratum (il nome, dato da Vitruvio, viene da saxum quadratum) risulta dalla messa in opera a secco di grandi blocchi squadrati o prismatici lavorati su tutte le facce, che conferiscono al manufatto un'ottima resistenza e contribuiscono notevolmente a soddisfare una più raffinata esigenza estetica. In nome di tale esigenza, affinché i blocchi di pietra aderiscano meglio l'un l'altro ed i giunti si vedano il meno possibile, i Greci adottano il sistema dell'anathyrosis, una fascia perimetrale della faccia del blocco, larga qualche centimetro, spianata nel migliore dei modi; la zona da essa  racchiusa è invece leggermente incavata e lasciata grezza.

I metodi di disposizione dei blocchi parallelepipedi sono essenzialmente tre. Nel primo metodo, irregolare non isodomo, ad ogni due o più conci posti nel senso della lunghezza del muro, i cosiddetti ortostati, se ne alterna uno, detto diatono, posto nel senso della larghezza del muro stesso. Nel secondo schema, detto pseudoisodomo, ad ogni due o tre filari di ortostati sovrapposti si alterna un filare di ortostati di diversa dimensione, e cioè più bassi e maggiormente addentrati nel muro. Il terzo criterio è quello perfettamente isodomo e consiste nel disporre i conci tutti con i lati maggiori nel senso della larghezza del muro, ossia come diatoni.

La maniera costruttiva dell'opus quadratum, largamente usata dai Greci soprattutto nell'età classica, risultava impegnativa a causa della squadratura dei blocchi, del loro trasporto e del loro posizionamento. Nel mondo romano è stata prima, con l'avvento dell'opus caementicium, utilizzata per la realizzazione dei paramenti che fungevano da casseformi permanenti e poi progressivamente abbandonata.

Accorgimento per limitare eventuali dissesti dei manufatti è quello di non far collimare i giunti verticali dei conci di due filari sovrapposti, facendoli cadere a metà della lunghezza dei conci sottostanti.

La resistenza risulta incrementata dalla presenza di grappe che fanno ora la propria comparsa. Tali elementi venivano utilizzati nell'unione dei diversi conci e venivano posti, quasi forzati, in una sede intagliata nelle pietre che ne ricopiava esattamente la forma.

In origine le grappe erano dei semplici tasselli di legno, di solito di quercia, intagliati a semplice o doppia coda di rondine. Successivamente vennero realizzate in bronzo o in ferro e foggiate a forma di Z, di doppio T (I), di C, a doppia coda di rondine.

Il materiale più frequente per le mura è la pietra ma non mancano esempi (Velia, Gela, Selinunte, Eraclea Minoa, etc.) di utilizzo di mattoni crudi, ossia mattoni ottenuti essiccando al sole una miscela di argilla e paglia secca.

 

Pompei (Na)

300 a.C.

Velia (Elea) (Sa)

V - IV sec. a. C.

Paestum (Sa)

Cefalù   (Pa)

Agrigento

IV sec. a. C.

Siracusa

400 a.C. ca.

Lentini (Sr)

Mègara Hyblaea (Sr)

V sec. a. C.

Tindari (Me)

IV sec. a. C.

Selinunte (Tp)

IV sec. a. C.

Gela (Cl)

IV sec. a. C.

Eraclea Minoa (Ag)

Nasso (Me)

Erice (Tp)

 

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1.2.8 Templi dorici: basamenti

 

Blocchi nelle pietre locali (arenaria, conglomerato alluvionale, travertino, tufo vulcanico, et.) stesi a formare tre o più gradinate.

 

La sottostruttura su cui poggia il colonnato del tempio dorico è un basamento a più gradini (crepidoma) il più in alto dei quali (stilobate) costituiva il piano di calpestio del tempio. Il crepidoma, a tre o più gradinate, era formato da stese di grossi conci parallelepipedi accostati e sfalsati da un livello all'altro.

Indicativi della tecnica costruttiva del basamento sono alcuni particolari osservabili nei templi incompiuti: i conci erano dotati di bozze sporgenti utili per il loro sollevamento e la loro messa in opera e che di solito venivano asportate solo in fase di rifinitura del tempio (Fig. 1.5).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 5 - Segesta. Basamento del tempio incompiuto.

 

 

I materiali impiegati per la costruzione delle parti basamentali dei templi presentano strutture chimico-fisiche (struttura, porosità e conformazione dei pori) tali da favorire l'insorgenza di fessurazione e sgretolamento. I dissesti osservabili sui basamenti dei templi evidenziano proprio processi di degrado direttamente riconducibili al comportamento dei materiali in presenza di umidità.

 

Caulonia (Rc)

Tempio del 450 a. C.

Imera (Pa)

Tempio della Vittoria databile al 480 a.C. e riportato in luce nel 1928ᆱ.

Agrigento

Tempio di Vulcano, 430 a.C.

 

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1.2.9 Templi dorici: colonne singole

 

Blocchi e rocchi nelle pietre locali (arenaria, conglomerato alluvionale, travertino, tufo vulcanico, etc.).

 

La colonna dorica, priva di base, poggia direttamente sullo stilobate. Il fusto, scanalato durante la fase di finitura della costruzione templare, era monolitico solo negli edifici arcaici (Tempio "E1" di Selinunte dell'ultimo quarto del VII secolo a.C., Tempio di Siracusa del 580÷570 a.C.). Durante la seconda metà del VI secolo a.C. il fusto inizia a risultare composto di rocchi (usualmente da 4 a 9),  va rastremandosi in alto e presenta quasi sempre un rigonfiamento più o meno accennato (éntasi) a circa un terzo dell'altezza (Fig. 1.6).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 6 - Paestum. Colonna rialzata in prossimità dello spigolo N-E del tempio di Cerere.

 

 

Le scanalature, più o meno piatte o profonde, ad arco di cerchio, si congiungono in spigoli acuti e variano da 16 a 24 anche se il numero classico è 20; le proporzioni del fusto, date dal rapporto tra il diametro inferiore o medio-aritmetico e l'altezza variano col progredire del tempo da 1:4 a 1:6, indicando la tendenza a slanciare sempre di più la colonna. Nel tempio arcaico di Siracusa, primo grande tempio periptero, le proporzioni erano estremamente pesanti: il rapporto tra altezza (m 7,98) e diametro di base nelle colonne (m 2,02 sui lati brevi) era nella facciata solo di 3,95, e la distanza tra gli assi delle colonne era tanto ridotta (m 4,15) che le parti piene sembravano prevalere sulle vuote. Nel più antico tempio dell'acropoli di Selinunte (Tempio "C", ca. 550 a.C.), le soluzioni adottate sono simili, ma già con una maggiore leggerezza di proporzioni: il diametro delle colonne oscilla fra m 1,51 e m 1,81, l'intercolunnio varia da m 4,40 sui lati brevi a m 3,86 sui lati lunghi. Col tempo si raggiunge una configurazione più aerea con l'accentuazione dell'altezza delle colonne e con l'allargamento degli intercolunni.

L'ultima parte del fusto (ipotrachelio), segnata da solchi e da un alleggerimento della profondità delle scanalature, è lavorata in blocco col capitello, a forma troncoconica o di bacile rovescio (echino) sormontato da un parallelepipedo a base quadrata (abaco).

Al centro di ciascun rocchio erano praticati fori quadrati d'impostazione dei perni.

Le colonne mostrano fenomeni di degrado dei materiali sia sugli elementi costituenti il fusto che sugli elementi di collegamento con la fondazione e con gli architravi: sgretolamenti, cavillature più o meno superficiali e macrofessure dovuti alla lunga esposizione agli agenti atmosferici. Oltre a questo degrado direttamente legato alla natura dei materiali da costruzione, si riconoscono lesioni sottili a sviluppo verticale (Fig. 1.7), presumibilmente dovute a fenomeni di schiacciamento e, più vistose, fratture localizzate sul perimetro dell'interfaccia di un rocchio con i rocchi adiacenti, con lo stilobate e con l'echino, prodottesi probabilmente a seguito di impatti innescati da azioni sismiche.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 7 - Metaponto. Lesione verticale su rocchio.

 

 

Il pressoché perfetto allineamento delle scanalature lungo il fusto denuncia l'assenza di significative traslazioni e rotazioni relative tra i singoli elementi. Ora, se è pur vero che la maggior parte delle colonne doriche che oggi vediamo in piedi isolate o collegate da architravi sono il risultato di operazioni di anastilosi, la coincidenza delle scanalature sui fusti delle colonne di templi che non hanno subito crolli nella loro lunga vita giustificherebbe l'interposizione tra i rocchi di perni di giunzione alloggiati nei fori a sezione circolare o quadrata che si vedono nei rocchi ammassati a terra.

 

Capo Colonna (Kr)

Unica colonna superstite del Tempio di Hera Lacinia

Agrigento

Tempio di Ercole, 500놲 a. C., ne sono state rialzate 8 colonne nel 1924; di queste, 4 sono dotate di  capitello

Tempio di Giunone Lacinia (450놀 a.C.)

Tempio di Castore e Polluce, fine V sec. a. C., restano 4 colonne angolari, simbolo di Agrigento

Selinunte (Tp)

Tempio "C", metà del VI sec. a. C., colonne rialzate nel 1925

Tempio "E"

Tempio "G" databile 550놨 a.C., una colonna è stata rialzata nell'Ottocento

 

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1.2.10 Templi dorici: colonnati intatti con architravi poggiati

 

Architravi costituiti da blocchi di pietra locale che si congiungono sugli assi delle colonne.

 

L'architrave (epistilio) rappresenta nell'architettura ellenistica il risultato della ricerca di alleggerimento rispetto al monolitico architrave egizio: alle coperture rigide si sostituiscono coperture flessibili (lignee) e diminuisce la sezione degli elementi di sostegno.

Risulta composto di elementi che si congiungono sui capitelli, in corrispondenza degli assi delle colonne (Fig. 1.8). Talvolta, piuttosto che essere perfettamente orizzontale, presenta una convessità di qualche centimetro: tale "curvatura delle orizzontali" serviva ad impedire che le colonne, molto numerose, dessero l'impressione di divergere.

L'intercolunnio, esiguo nei templi più arcaici (1,50 m ca. nel VI sec. a. C.), si apre a maggiori ampiezze (2,40 m ca.) nei templi della maturità dell'ordine dorico (V sec. a. C.). Si dava  maggior importanza all'asse lungo principale del tempio con l'allargamento degli interassi della facciata, in particolar modo di quello centrale.

Il permanere in sito, al di sopra delle colonne, di architravi e fregi intatti è probabilmente spiegato dalla presenza di grappe metalliche che, vincolando tra loro i diversi elementi di architrave, hanno favorito un moto di insieme in fase per l'intero colonnato. Non mancano, come sui rocchi delle colonne, abachi o parti di architravi ammalorati cui si è posto rimedio tramite confinamento con staffe metalliche (Fig. 1.9).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 8 - Metaponto. Uno dei due colonnati delle Tavole Palatine.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 9 - Paestum. Tempio di Cerere. Abaco confinato con staffa.

 

 

Metaponto (Mt)

Tempio di Hera (Tavole Palatine), VI sec. a. C.

Paestum (Sa)

Tempio impropriamente detto "Basilica", metà del VI sec. a. C.

Agrigento

Tempio di Giunone Lacinia (450놀 a. C.), conserva 25 delle 34 colonne originarie; il colonnato del lato N sostiene integro tutto l'architrave

Tempio di Castore e Polluce (V sec. a. C.), sono state rialzate nell'Ottocento 4 colonne sulle quali è stata posta una trabeazione più tarda

Selinunte (Tp)

Tempio "C" della metà del VI sec. a. C., 12 colonne del lato N sono state rimesse in piedi nel 1925ᆯ

Tempio "E"

 

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1.2.11 Templi dorici: colonnati, architravi, fregi, frontoni

 

Fregio costituito da due filari, interno ed esterno, di blocchi di pietra locale; muro di timpano con cornici.

 

I templi meglio conservati presentano, oltre che colonnati e architravi, anche fregi e frontoni.

Il fregio, sopra l'architrave, composto di triglifi e metope, risulta da due filari di blocchi, interno ed esterno. Spesso è rimasto fino a noi solo il filare interno i cui blocchi presentano sui lati minori degli incavi ad U che servivano per farvi passare le corde degli argani utilizzati per sollevare i blocchi stessi.

Il frontone è il muro triangolare di fondo (timpano) circondato da una cornice orizzontale e da due cornici oblique poste sotto gli spioventi del tetto (Fig. 1.10).

Oggi nei timpani e nelle cornici oblique si riscontrano crolli parziali e fratture ampie (Fig. 1.11).

I dissesti osservabili su questa tipologia sono al solito riconducibili a varie cause; le più importanti, oltre alle condizioni climatiche e all'inquinamento, sono l'azione dell'uomo (frequentazione incontrollata, errori negli interventi tecnici quali abuso di materiali e tecnologie moderne, …) e l'azione sismica.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 10 - Segesta. Il tempio incompiuto (430 ¸ 420 a. C.).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 11 - Paestum. Tempio di Cerere (fine VI sec. a. C.). Frattura di timpano e cornice obliqua.

 

 

Agrigento

Tempio della Concordia, V sec. a. C.

Paestum (Sa)

Tempio di Nettuno (Hera Argiva), metà del V sec. a. C., travertino locale tenero

Tempio di Cerere, fine del VI sec. a. C.

Segesta (Tp)

Tempio del 430녬 a.C.

 

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1.2.12 Templi dorici: doppio ordine di colonne

 

Blocchi e rocchi nelle pietre locali per colonnati a doppio ordine di delimitazione della cella e di appoggio del tetto.

 

Talvolta la cella del tempio è divisa in tre navate per mezzo di due file di colonne in doppio ordine (Fig. 1.12). Tali colonne interne avevano lo scopo di sostenere le travature del soffitto e si rendevano necessarie quando, data la grande altezza che doveva essere raggiunta, si voleva evitare di porre all'interno del tempio colonne troppo grandi e alte.

Nel Tempio di Nettuno di Paestum, periptero, esastilo, con 14 colonne sui lati lunghi, la cella, con pronao e opistodomo in antis, è suddivisa da due filari di sette colonne doriche sormontate da un secondo ordine di colonne di dimensioni minori; nella costruzione si trovano già applicati quegli accorgimenti che saranno circa dieci anni più tardi applicati per il Partenone, quali le curve di correzione prospettica verticali e orizzontali.

La stabilità e la conservazione ai nostri giorni di colonnati a doppio ordine di colonne, costituenti la cella interna del tempio, è stata probabilmente garantita da configurazioni spaziali favorevoli e dalla presenza di massicci muri a taglio ortogonali che hanno limitato o annullato gli spostamenti al di fuori del loro piano.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 12 - Paestum. Tempio di Nettuno (450 a. C.).

 

 

Paestum (Sa)

Tempio di Nettuno (Hera Argiva), metà del V sec. a. C., in travertino locale tenero

 

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1.2.13 Sostruzioni

 

Strutture di alzato realizzate per sostenere un piano orizzontale attraverso pareti murarie collegate talvolta da setti con terreno interposto (s. piene) o un insieme di stanze coperte da volte in opus caementicium (s. cave).

 

Le sostruzioni (substructiones) da non confondersi con le fondazioni (fundamenta), sono le strutture fuori terra  e perciò di alzato, costruite in terreno declive per realizzare un piano orizzontale a una quota stabilita. Vitruvio, in questo confermato da molte e complesse testimonianze materiali, prova che il problema delle spinte delle terre sulle sostruzioni era ben noto ai costruttori e suggerisce le regole da applicare in questo tipo di costruzioni: "….. bisogna fare come segue: lo spessore della muratura deve corrispondere a quello della terra che si mette alle spalle. Quindi muri di sostegno (anterides) e contrafforti (erismae) devono essere eseguiti contemporaneamente. L'intervallo fra di loro deve essere pari all'altezza delle sostruzioni e il loro spessore allo spessore di quelle. ….". Vitruvio si occupa solo della sostruzione "piena" in cui la parte dominante è svolta dal terreno più o meno imbrigliato da setti murari. Essi erano collegati tra loro praticamente solo sulla fronte ed erano privi di una copertura autonoma che li separasse da piano sovrastante.

Un altro sistema, assai antico, era quello delle due pareti collegate da setti murari a pettine: ne risultava una teoria di "scatole" che venivano riempite con sabbia o terra costipata: questo procedimento non differisce molto da quello descritto da Vitruvio.

Un tipo di sostruzione altrettanto diffusa, se non di più, e del quale Vitruvio non parla, fu quello "cavo", in cui la funzione resistente era affidata a un organismo complesso articolato in stanze coperte da volte massive.

 

Otricoli (Tr)

"Grande sostruzione", probabilmente pertinente ad un santuario, piano inferiore in tecnica rustica, piano superiore in opera reticolata ancora irregolare con piccoli conci, volte in opera cementizia

Tivoli (Rm)

Villa Adriana, "Villa di Orazio", "Villa di Cassio", Villa di Quintilio Varo

Roma

Mausoleo di Augusto

Todi (Pg)

"Nicchioni", opera quadrata di travertino senza malta

Pierre Taillée (Ao)

Sostruzione della strada nazionale

 

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1.2.14 Terme

 

Volte a cupola, a botte, a crociera, a padiglione, etc. in blocchi a secco e, più frequentemente, in opus caementicium.

 

Negli edifici termali le pareti in muratura erano realizzate secondo le tecniche comunemente in uso nel mondo romano anche per l'edilizia residenziale.

La forma struttiva tipica dell'architettura termale è invece la volta, usata per coprire vari ambienti (apodyterium, laconicum, frigidarium, tepidarium, caldarium). La forma più semplice, a botte, in genere a tutto sesto (Fig. 1.13), ma anche a sesto ribassato (Fig. 1.14), trova larghissimo impiego. Piuttosto rare sono, in epoca romana, le volte a vela e quelle a padiglione, mentre più frequente è l'uso di costruire vere volte a crociera che consentono di dare senso di continuità spaziale ad un grande ambiente coperto da due o più di esse, o ad ambienti adiacenti: si trovano in grandiose dimensioni nelle terme di Tito, di Caracalla, di Diocleziano, nell'aula dei mercati traianei e nella "basilica di Massenzio".

L'evoluzione e la diffusione delle coperture voltate coincidono con l'affermarsi della tecnica dell'opus caementicium. Le prime volte di calcestruzzo erano state costruite sopra uno strato interno di caementa allungati, disposti radialmente (Fig. 1.15), che funzionavano, o si credeva funzionassero, come i mattoni o i conci della tradizionale volta a botte. Le volte d'epoca più matura erano invece formate da corsi disposti orizzontalmente, come i muri su cui sorgevano.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 13 - Ercolano. Copertura del tepidarium delle terme femminili.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 14 - Alba Fucens. Serie di quattro tabernae sul lato N del macellum coperte con volte a botte a sesto ribassato in opus caementicium.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 15 - Alba Fucens. Disposizione degli scapoli di pietra nella volta a botte in opus caementicium di una taberna.

 

 

Spesso nelle volte si riscontrano allettamenti di laterizio normalmente definiti nervature, disposti secondo i meridiani e più tardi collegati tra loro ad intervalli mediante mattoni bipedali in modo che il getto del calcestruzzo veniva eseguito nei vuoti di questa struttura: nel Colosseo se ne vedono i primi tentativi che si fanno poi sempre più frequenti. Il campionario delle nervature è vasto e va dalla realizzazione episodica e puntuale a quella estesa all'intera superficie voltata, sempre con un buon aggancio al conglomerato contiguo attraverso l'accentuato frastagliamento dei bordi. Talvolta, come nel Pantheon, le nervature erano formalmente denunciate nell'intradosso della volta mediante la struttura a cassettoni; altre volte le nervature realizzavano costoloni salienti al vertice così da dare alla cupola una forma ad ombrello come nella villa dei Sette Bassi a Roma.

La funzione reale delle nervature è controversa e gli studiosi hanno oscillato dall'irrigidimento della centina (Choisy, 1873) alla ripartizione delle spinte (Rivoira, 1921), dalla volontà di guidare e suddividere la massa del conglomerato fluido (De Angelis d'Ossat, 1943, Ward-Perkins, 1979) o di alleggerire il peso della cupola (Salvatori, 1972) al raccordo degli strati lungo i meridiani (Cozzo, 1928).

Nel periodo adrianeo si realizzavano forme voltate di maggiore complessità in concomitanza con l'uso di un meglio conosciuto e confezionato conglomerato cementizio e frequentemente si usavano manti intradossali realizzati con uno o assai più spesso due ma anche tre strati di laterizi diversi. Anche a queste fodere di laterizio si è attribuito il significato di espediente per risparmiare il legname della centina oppure creare maggiore aderenza con l'intonaco (Cozzo, 1928). Tale attribuzione sembra errata a giudicare da quanto scrive Vitruvio sulla necessità di fare la scialbatura con latte di calce per far aderire l'intonacatura al laterizio.

La volontà di alleggerire il peso delle volte è denunciata da vari espedienti: prima di tutto dalla scelta, quali inerti nella massa del conglomerato, di materiali a peso specifico decrescente man mano che si gettavano parti più in alto delle cupole; successivamente dall'uso di incorporare nel getto anfore vuote appositamente fabbricate per essere innestate l'una nell'altra e disposte in file. Tale sistema era importato dalle province del Nord Africa, dove scarseggiava il legname per le casseforme ma aveva modesta diffusione in Italia e a Roma, continuandosi a preferire il calcestruzzo pieno. Sempre l'esigenza di alleggerire le strutture spingenti conduceva ad usare una struttura interna di tubi di laterizio concatenati (tubuli del diametro esterno di 7ᆞ cm): ne sarà il risultato la leggerezza delle volte bizantine.

Frequentemente nei vani riscaldati delle terme coperti con volta massiva le calotte erano doppie: la controcalotta era appesa ad uncini incastrati nel conglomerato al momento della gettata e sosteneva un manto di laterizio che dava luogo ad un'intercapedine per il passaggio dell'aria calda.

Il problema del contrasto alla spinta verso l'esterno esercitata dalle volte era risolto in vari modi. A parte il rimedio più immediato, quello dell'ingrossamento dei piedritti, si usava, sia per volte a botte che per quelle a crociera, addossare ai piedritti stessi dei tratti di muri, disposti perpendicolarmente e ad intervalli, detti contrafforti oppure, se finivano a scarpa, speroni o barbacani. Altro rimedio era quello di affiancare all'ambiente principale coperto a volta, altre volte in modo che si contraffortassero a vicenda: il contrappunto tra spinte e controspinte origina la giustapposizione di enormi sale a sale minori che le circondano secondo una distribuzione logica strutturale e funzionale. Si cercava di realizzare strutture che scaricassero il proprio peso su punti specifici anziché sulle intere pareti: è il caso del ricorso a speroni esterni e a quei contrafforti con aperture arcuate, messi a contrastare le spinte delle crociere, che sono il preludio agli archi rampanti cui l'architettura gotica affiderà le medesime funzioni. Grazie a questi elementi portanti, le pareti si riducevano a semplice tessuto tra gli stessi e in esse potevano aprirsi ampie finestre. Nel caso di coperture a cupola i rafforzamenti erano realizzati generalmente tramite contrafforti interni: si modellavano le pareti di grosso spessore in modo che si formassero internamente delle grandi nicchie. Altro modo di contrastare la spinta della cupola era quello di cingere la superficie d'imposta con una volta a botte anulare.

La più imponente cupola romana integralmente conservata appartiene ad un edificio templare ed è quella del Pantheon ricostruito da Adriano tra il 120 e il 125 d.C.. Esso è un esempio dell'arditezza costruttiva raggiunta dai Romani attraverso il perfezionamento dell'opera cementizia e dell'opera laterizia e grazie alla esperienza architettonica degli edifici circolari, terme e templi, che in quell'epoca si andava sempre più arricchendo: si pensi alle cupole di Baia e delle Terme di Traiano in Roma. L'armonia delle proporzioni interne si deve soprattutto alla perfetta uguaglianza tra il diametro e l'altezza (m 43,30), cosicché entro l'aula può essere idealmente inscrivibile una sfera la cui metà superiore costituisce l'intradosso della cupola (Fig. 1.16).

La fondazione della rotonda è costituita da un anello di muratura profondo m 4,50 e largo m 7,30 circa, formato di strati orizzontali di scaglie di travertino annegate in una malta tenacissima di calce e pozzolana, rivestito all'esterno in laterizio con paramento di semilateres. La robustezza della fondazione, fattore importante di stabilità della costruzione, non fu casuale ma piuttosto (Ward-Perkins, 1979) il risultato delle osservazioni di pregresse esperienze.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 16 - Roma. Pianta, sezione e vista assonometrica del Pantheon (120 ¸ 125 d.C.).

 

 

Il poderoso muro cilindrico che sorregge la cupola, spesso 6 m, è reso più leggero e movimentato da otto grandi vani, due arcuati per l'ingresso e per l'abside, sei architravati. Sulla fronte di questi sei vani e ai lati dell'abside l'architrave è sorretto da coppie di preziose colonne monolitiche di giallo antico e di pavonazzetto. La cupola è alleggerita da cinque anelli concentrici di 28 cassettoni ciascuno, non aggiunti ma ottenuti in gettata, chiusi al sommo dal grande occhio, largo quasi 9 m, che dà luce a tutto l'interno. La copertura dell'immenso spazio (oltre 53 000 metri cubi di vuoto) fu realizzata anzitutto con la concentrazione dei pesi e delle spinte sugli otto grandi piloni di muratura contenuti nell'anello di sostegno e poi con la gettata di calcestruzzo a strati orizzontali di materiali diversi, gradatamente sempre più leggeri dal basso verso l'alto (scaglie di travertino, di tufo, di mattoni, di scorie vulcaniche) il cui spessore va diminuendo da m 5,90 all'imposta a m 1,50 alla sommità. L'anello del grande occhio fa da chiave di volta ed è in opera laterizia dello spessore di m 1,40.

La cupola presenta all'esterno un profilo piuttosto appiattito per via degli anelli a gradoni disposti alla sua base in aiuto alla struttura col loro peso e quindi per rivestimento un intonaco impermeabile (opus Signinum) spesso 15 cm, già coperto da tegole bronzee.

Alla demolizione della poderosa centina che aveva servito per la costruzione della volta dovettero verificarsi lesioni dalle fondazioni sino alla sommità della cupola: furono perciò attuate complesse opere di consolidamento, quali rinfianchi alle fondazioni e alla cupola nonché fasciamenti e speronature del corpo anulare. L'assestamento della grande mole dovette durare più di un secolo, se Settimio Severo e Caracalla vi apportarono dei restauri, lasciandone memoria in un'iscrizione sull'architrave.

Nel corso dei secoli il Pantheon ha poi subito varie mutilazioni: lo scavo di corridoi e cappelle nei piloni, punti staticamente più delicati; l'addossamento di case; gli enormi tagli nelle murature per la costruzione dei campanili del Bernini demoliti nel 1883; l'asportazione delle opere di rinforzo non riconosciute come tali.

Frequentemente le volte subirono dissesti seri già durante e subito dopo la loro costruzione a causa di cedimenti delle fondazioni oppure per insufficienza dei supporti laterali. A tali dissesti si poneva rimedio ricorrendo a speroni e contrafforti esterni, ad ampliamenti delle fondazioni, ….

I dissesti che si osservano oggi nelle coperture voltate degli edifici termali e dei templi consistono in:

 

Il grado di dissesto cresce passando dalla forma semplice delle volte a botte a quelle più complesse delle volte a crociera e delle cupole. Incidono i diversi organismi strutturali delle volte vere e proprie e delle strutture di sostegno (muri, tamburi, piloni, ..) ma anche le dimensioni dei vani su cui si impostano le diverse volte, contenute nel caso delle prime, dell'ordine di molti metri e talvolta grandiose nelle seconde.

 

Roma

Terme Antoniniane o di Caracalla (206날 d.C.)

Terme di Diocleziano (298냺 d. C.)

Pantheon  (118끅/8  d. C.)

Aula centrale dei Mercati Traianei  (210 d. C.)

Tempio di Minerva Italica

Domus Augustana

Domus Aurea  (dopo 64 d. C.)

Tor Pignattara  (Mausoleo di Elena)

Ostia (Rm)

Terme del Mitra  (125 d. C. circa)

Terme della Trinacria, di età adrianea

Terme dei Sette Sapienti, di probabile età adrianea

Terme della Basilica cristiana, dell'età di Traiano

Terme Marittime, prima fase, di età adrianea, in opera mista, ristrutturazione e aggiunta di vani laterizi agli inizi del III  sec. d. C.

Terme di Porta Marina, prima fase di età traianea in opera mista, numerosi rifacimenti in laterizi

Terme del Nuotatore, prima fase di età flavia (89ᇮ d.C.), in opera reticolata e laterizia con successive trasformazioni

Albano (Rm)

Terme di Cellomaio, dell'età di Caracalla

Baia (Ce)

Terme di Mercurio, di età augustea

Terme dette "Tempio di Diana"

Pompei (Na)

Terme Stabiane (II sec. a. C.)

Terme del Foro (80 a.C.)

Terme Centrali (dopo 62 d. C.)

Terme Suburbane

Ercolano (Na)

Terme Femminili

Saturnia (Gr)

Resti di ambienti termali

Ravenna

Battistero degli Ortodossi

Catania

Terme

 

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1.2.15 Acquedotti

 

Canale in muratura di pietra o di laterizi su pile ed archi più o meno serrati generalmente in opus quadratum o in opus caementicium.

 

Gli Etruschi, pur avendo lasciato opere d'ingegneria idraulica, non costruirono veri acquedotti. E' probabile quindi che i Romani apprendessero la tecnica di incanalamento dell'acqua dagli abitanti dell'Italia meridionale allorché, in seguito alla conquista del Lazio meridionale stabilirono rapporti più stretti con le popolazioni del Sud: la contemporanea costruzione, nel 312 a. C., della via Appia e dell'omonimo, primo, acquedotto ne sono l'indice significativo. L'importanza attribuita dai Romani all'approvvigionamento idrico è provata dall'esistenza di un trattato su tale materia, il De aquae ductu urbis Romae, scritto da S. G. Frontinus nel 98 d. C. e frutto dell'esperienza di quattro secoli.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 17 - Tratto dell'acquedotto Claudio (38 ¸ 52 d. C.).

 

 

Gli acquedotti soppiantarono sistemi svariati di raccolta delle acque piovane quali cisterne di forma cilindrica con copertura a pseudo-volta, costruite in pietre squadrate e impermeabilizzate internamente con intonaco, gallerie scavate nel tufo con pareti intonacate, dalle quali l'acqua veniva attinta attraverso pozzi verticali, …

L'acquedotto captava solitamente sorgenti, preferite anche a costo di allungare notevolmente il percorso; l'acqua scorreva a pelo libero entro un condotto (specus), normalmente a sezione rettangolare, coperto a cappuccina o in piano o a vòlta, di dimensioni tali da esser facilmente accessibile per la pulizia e le riparazioni. Ad intervalli regolari prese d'aria permettevano di ristabilire la pressione atmosferica. Il condotto, realizzato in muratura di pietrame a secco inizialmente e in muratura ordinaria di pietra o di laterizi successivamente, era internamente impermeabilizzato con un forte strato di intonaco di opus Signinum: materiale descritto da Vitruvio e ottenuto miscelando calce molto forte, sabbia, pietrame duro di piccola pezzatura (la sua preparazione prevedeva 5 parti in volume di sabbia e 2 di calce) e costipando per battitura con mazzeranga l'impasto al fine di conferirgli elevata compattezza. L'opus Signinum (lett. "calcina di Signa") deve essere distinto dal materiale cocciopesto sia per la diversa composizione - nel secondo rientrano anche frantumi di laterizio - sia per il diverso utilizzo, prevalentemente per strutture idrauliche il primo, per pavimentazioni e rivestimenti il secondo.

Quando lo speco doveva attraversare una valle troppo lunga per essere aggirata, o percorrere una pianura, erano necessarie costruzioni elevate per evitare bruschi dislivelli: la soluzione era di sostenere il condotto attraverso archi portanti. Se perciò inizialmente gli acquedotti erano sotterranei per l'intero percorso - il primo, l'Aqua Appia, aveva il condotto interrato in blocchi di tufo squadrati e giustapposti senza calce, il secondo, l'Anio Vetus, pur utilizzando un primo esempio di viadotto (Ponte degli Arci), era ancora quasi interamente sotterraneo - con il terzo acquedotto, l'Aqua Marcia, inizia la serie dei tipici acquedotti romani su arcate: costruito in opera quadrata, corre su arcate di 5,10LJ,35 m di luce.

Gli archi, sempre a sesto pieno, scaricavano il peso proprio e quello del condotto su pile di grossa sezione rispetto alla luce coperta; il rapporto tra lo spessore dell'arco in chiave e la luce dell'arco oscilla, secondo le misurazioni del Leger (1875), tra 0,10 (acquedotto di Arles) e 0,28 (Aqua Alexandrina), con una media, su undici esemplari, di 0,138.

Le pile avevano nucleo in opus caementicium entro fodere di muratura in materiali diversi: l'unico acquedotto costruito integralmente in opera laterizia è l'undicesimo ed ultimo della serie degli acquedotti di Roma, l'Aqua Alexandrina.

Per funzionare l'acquedotto doveva essere rigido almeno al livello del condotto dove anche una minima lesione pregiudicava il funzionamento dell'opera. Tuttavia l'acquedotto, per via della stessa filosofia strutturale di elemento lunghissimo e lineare, affrontava fatalmente disomogeneità di terreno e di costruzione che in breve tempo ne rendevano necessario il restauro funzionale.

E' vero che già al momento della costruzione erano ammessi eventuali interventi di consolidamento come provato dai "cagnoli" delle centine sospese e dei ponteggi a sbalzo lasciate in opera per essere riadoperate in caso di ulteriori interventi. Consolidamenti radicali ed evidentissimi si hanno nell'Aqua Claudia che, terminata e messa in servizio prima dell'altro acquedotto fatto costruire da Claudio, l'Anio Novus, ha visto i suoi archi, destinati originariamente a sopportare un solo canale, sottoposti ad entrambi i canali, donde una fragilità relativa dell'insieme; le riparazioni furono numerose, da parte di Vespasiano (71) e di Tito (80ᇥ).

Il sistema di consolidamento più frequente era l'uso di archi di sostegno a una o più ghiere e spesso a due ordini sovrapposti. Questi nuovi archi, con spalle proprie, riducevano la luce di quello vecchio ingrossando il pilone.

 

Roma

Acqua Appia (312 a. C.), Anio Vetus (272 a. C.), Aqua Marcia (144 a. C.), Aqua Tepula (125 a. C.), Aqua Iulia  (33 a. C.), Aqua Virgo (19 a. C.), Aqua Alsietina (2 a. C.), Aqua Claudia (38ᇈ d. C.), Anio Novus (ca. 50 d. C.), Aqua Traiana (109 d. C.), Aqua Alexandrina (226 d. C.)

Acqui Terme (Al)

Arcate in laterizio a piloni rastremati, lungo il fiume Bormida

Tortona (Al)

Lungo il tracciato della Via Postumia, da Villalvernia a Tortona

Albenga (Sv)

Resti di otto pile

Minturno (Lt)

Arcate in struttura reticolata d'età augustea

Spello (Pg)

Resti di acquedotto in opus vittatum

Napoli

Acquedotto del Serino, in opera reticolata con restauri in laterizio

Termini Imerese (Pa)

Acquedotto Cornelio (I sec. a. C.), arcate, ponte a doppio ordine di archi sul torrente Barratina, castello di compressione a pianta esagonale alto m 15,60 e poggiante su zoccolo murario a pianta quadrata di m 6 di lato

 

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1.2.16 Archi trionfali

 

Zoccolo, grossi pilastri di fiancata, volta e attico superiore in blocchi lapidei posti a semplice contrasto o uniti da grappe metalliche, raramente in opera laterizia, a formare monumenti bifronti a uno o più fornici oppure monumenti quadrifronti in cui l'incontro delle volte è a crociera o a cupola.

 

Gli elementi essenziali della struttura dell'arco trionfale sono la volta, i pilastri portanti e il blocco superiore solitamente in forma di attico che costituisce il basamento delle statue. La volta può costituire un unico blocco di muratura con i pilastri portanti oppure, più frequentemente, si imposta sopra una cornice che delimita superiormente i pilastri nell'interno del fornice o anche sulle facciate. La forma di arco di gran lunga più frequente è quella a tutto sesto. La tecnica è in genere l'opera quadrata; fa eccezione l'opera laterizia della Porta Palatina di Torino.

Nei monumenti bifronti, posti a cavallo di una strada, prevale il tipo ad un solo fornice (Fig. 1.18); tuttavia, soprattutto in manufatti di maggiore importanza, si trova un tipo più complesso a triplice passaggio, in cui il fornice centrale è più ampio e più alto dei laterali (Fig. 1.19).

I casi con doppio fornice sono rari e si trovano solo all'ingresso di città, su ponti e su moli.  L'arco bifronte non costituisce quasi mai un edificio isolato; esso aderisce lateralmente ad altre costruzioni quali mura urbane, recinti, porticati oppure stadi o circhi ed altri edifici per i quali abbia la funzione di accesso principale o ancora acquedotti nel caso di attraversamenti stradali. Archi si aprono talvolta su facciate molto articolate, come è il caso della già citata Porta Palatina di Torino (Fig. 1.20): quattro fornici, due centrali più ampi e due laterali minori si aprono in un prospetto che ha nella zona superiore a quella dei fornici due ordini di finestre e ai fianchi due alte torri poligonali a 16 lati.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 18 - Susa. Arco di Augusto ( 8 a. C.).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 19 - Roma. Arco di Settimio Severo (203 d. C.).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 20 - Torino. Porta Palatina (I sec. d. C.).

 

 

Una tipologia di archi trionfali che si trova sempre isolata è invece quella degli archi quadrifronti o tetrapili, monumenti più complessi riferibili alla fase più evoluta dell'architettura romana (III e IV sec. d.C.). Concepiti a cavallo di due vie che si intersecano ad angolo retto, in essi l'incontro delle volte può essere a crociera o a cupola.

Il materiale usato per la costruzione degli archi è spesso la pietra da taglio, con la struttura dell'arco generalmente armonizzata con quella dei muri. Negli archi di blocchi di pietra di regola i conci sono in numero dispari, essendo disposti in numero pari ai lati del concio centrale di chiave; vi sono tuttavia dei casi, come nel Santuario di Ercole a Tivoli, in cui si ha sistematicamente un numero pari con giunto di malta in chiave. Gli archi potevano essere:

 

Mancando, con gli archi estradossati, un vero collegamento tra arco e parete, si preferiva, almeno a partire dall'età augustea, impiegare l'arco a conci pentagoni (Fig. 1.21) che permetteva il collegamento alla parete e che talvolta era di materiale più resistente di quello dei muri. Specialmente quando l'arco ha immediatamente al di sopra l'orizzontale delle cornici, si facevano giungere i conci pentagoni fino a tale linea, per lo meno nel gruppo di centro, anziché costruire prima l'arco e poi una sovrastante muratura di conci ridotti a dimensioni troppo esigue: i conci venivano però tagliati in maniera da dare l'impressione di un arco estradossato.

Gli archi  a blocchi potevano avere gli elementi posti a semplice contrasto oppure tenuti uniti da grappe metalliche: sulla superficie di taluni archi sono visibili i fori dovuti al prelievo, avvenuto già in epoca antica, di tali grappe.

I pilastri sono di grande sezione onde far ricadere nel terzo medio la risultante obliqua delle forze. Il principio era così esposto da Vitruvio: ".. quando gli archi sono fatti con conci a cuneo orientati al centro, i pilastri devono aggettare per maggiore ampiezza, così da essere forti e resistere quando i conci pressati in basso dal peso della muratura, a causa delle loro connessioni, tendono a scendere al centro mentre alle imposte spingono all'esterno. Perciò se i pilastri sono di dimensioni ampie, freneranno la spinta e daranno stabilità agli edifici".

 

Roma

Arco di Tito (81뀬 d.C.)

Antica porta Esquilina (Arco di Gallieno), età di Augusto

Arco d'Augusto (29 a. C.)

Arco d'Augusto (19 a. C.)

Foro di Augusto (19 d. C.)

Porta Maggiore (144 a.C. - 125 a.C. - 33 a. C.)

Arco di Settimio Severo  (203 d. C.)

Arco di Costantino (312ᆣ d. C.)

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 21 - Roma. Porta San Sebastiano.

 

 

Aosta

Arco di Augusto (25 a. C.)

Susa (To)

Arco di Augusto (8 a. C.)

Torino

Porta Palatina  (I sec. d. C.)

Ravenna

Porta Aurea (43 d.C.)

Verona

Arco dei Gavi

Trieste

Arco di Riccardo

Rimini

Arco di Augusto (27 a. C.)

Ancona

Arco di Traiano (115 d. C.)

Ascoli

Porta Romana

Fano (Pe)

Arco di Augusto

Malborghetto

Arco del principio del IV sec. d. C.

Spoleto (Pg)

Arco Germanico e Druso (23 d. C.)

Spello (Pg)

Porta Consolare, Porta Venere

Benevento

Arco del Sacramento (II sec. d. C.), Arco di Traiano (114ᆥ d. C.)

Pompei (Na)

Nel Foro

Sepino (Cb)

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

1.2.17 Templi romani

 

Blocchi e rocchi in travertino, marmo, etc. uniti da grappe metalliche; volte in opera a getto; muri della cella in opera quadrata o laterizia.

 

Il tempio romano ripete, dal punto di vista tipologico, i modelli etrusco-italici: esso è perciò un edificio "frontale" costruito su un podio cui si accedeva da una scalinata, circondato da colonne solo su tre lati.

Elemento tipico del tempio romano e distintivo rispetto al tempio greco è la piattabanda, assimilabile dal punto di vista formale all'architrave e dal punto di vista strutturale all'arco: essa può infatti considerarsi derivata da un arco a sesto ribassatissimo tagliato da due piani orizzontali .

Essendo un arco a freccia nulla, la piattabanda è però una struttura spingente debole e perciò  non poteva essere usata per luci troppo ampie. Le piattabande a blocchi potevano avere conci  cuneiformi, a martello oppure a baionetta.

Talvolta la piattabanda svolgeva funzione di scarico a protezione di sottostanti architravi: nella trabeazione del tempio dei Castori nel Foro Romano, il blocco di chiave della piattabanda restava sollevato, rispetto al sottostante architrave, per non coinvolgerlo scaricando tutto il peso sui pulvini posti sulla verticale delle colonne.

Una versione evoluta della piattabanda è quella armata: nei pulvini erano ricavati incassi per alloggiare due o tre staffe di ferro che sostenevano la piattabanda vera e propria opponendosi alle sollecitazioni di trazione cui essa era soggetta nella parte inferiore.

Nelle colonne a rocchi e negli elementi di trabeazione, i conci erano usualmente collegati mediante grappe e perni di legno o di metallo, inseriti in appositi fori e annegati nel piombo fuso (Figg. 1.22 e 1.23).

 

Roma

Tempio dei Castori (117 a. C. - 6 d. C.)

Tempio di Venere Genitrice (46 a. C.), tre colonne portate alla luce nel 1932

Tempio di Venere e Roma, II sec. d. C.

Tempio di Apollo Sosiano (32 a. C.), tre colonne angolari

Tempio di Marte Ultore (42 a.C.), tre colonne

Tempio di Adriano

Tempio di Ercole Vincitore (II sec. a. C.)

Tempio di Antonino e Faustina

Tempio di Vesta nel Foro Boario, prima metà del I sec. a.C.

Tempio della Fortuna virile nel Foro Boario

Templi "A" e "B" dell'area sacra di largo Argentina, IV-I sec. a. C.

Tivoli (Rm)

Tempio circolare di Vesta

Terracina (Lt)

Tempio di Giove Anxur, dopo 80 a.C.

Palestrina (Rm)

Tempio della Fortuna Primigenia, I sec. a. C.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 22 - Alba Fucens. Santuario di Ercole. Rocchio con scanalature e foro di alloggio del perno.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 23 - Alba Fucens. Santuario di Ercole. Rocchio liscio con foro di alloggio del perno.

 

 

Cori (Lt)

Tempio di Ercole (I sec. a. C.)

Tempio di Castore e Polluce

Pompei (Na)

Tempio di Apollo (VI sec. a. C.)

Tempio d'Iside (dopo 62 d. C.)

Baia (Ce)

Tempio di Vesta

Assisi (Pg)

Tempio di Minerva (I sec. a. C.)

Brescia

Capitolium (73 d. C.)

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

1.2.18 Ponti

 

Conci e blocchi di pietra squadrata o di mattoni per muri e archi, opus caementicium nelle platee di fondazione, nelle ossature dei piloni e dei fornici.

 

Il contributo originale di Roma all'architettura antica è stato l'applicazione molteplice dell'arco a conci radiali alle strutture da ponte: gli Etruschi avevano costruito ponti ad una arcata sola. La forma di più arco di gran lunga più ricorrente è quella a tutto sesto, seguita dal sesto ribassato; talvolta nell'ambito delle arcate di un medesimo ponte si trovano forme diverse come per esempio nel Ponte di Tiberio (14ᆩ d. C.) di Rimini (Fig. 1.24), a cinque arcate, costruito in pietra d'Istria, per una lunghezza di m 62,60 con una sede stradale di 5 m: l'arco centrale è a sesto ribassato. La fondazione delle pile poteva essere una piattabanda unica in blocchi lapidei o una grande platea in opus caementicium.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 24 - Rimini. Ponte di Tiberio (14 ¸ 21 d. C.).

 

 

La parte più delicata e difficile di tutto il ponte erano le pile che dovevano resistere alla pressione dell'acqua ma anche servire come contrafforte per la spinta degli archi e delle masse gravanti su di essi. Per assecondare il corso della corrente, esse sono talvolta oblique rispetto all'asse del ponte (è il caso del già citato ponte di Rimini, del Ponte Milvio di Roma, etc.) e munite di frangiflutti. Allargando la luce dei singoli archi evidentemente diminuiva il numero dei piloni e soprattutto di quelli aventi fondazione nel fiume. Alcune luci di archi di ponti:

 

Poiché nella costruzione si adoperava per lo più l'arco a tutto sesto, con l'aumentare della luce il ponte diventava sempre più alto, cosicché spesso la carreggiata risultava più alta delle rive stesse del fiume e in tal caso rampe inclinate, anch'esse su archi minori, rendevano possibile l'accesso al ponte. Archi piccoli si aprivano talvolta anche nei piloni maggiori per facilitare in caso di piena il deflusso dell'acqua. La larghezza dei ponti quasi mai superava i 7NJ m.

Probabilmente non esisteva una regola precisa per calcolare lo spessore dell'arco in funzione della luce: dalle misurazioni del Leger, il rapporto tra spessore in chiave e luce dell'arco oscilla, nei ponti stradali, tra 0,045 (Ponte di Narni) e 0,133 (Ponte Fabricio) con una media, su 20 esempi, di 0,086.

A partire dal III sec. a.c. l'affermazione del nuovo materiale calcestruzzo poneva problemi di distacco tra le cortine in muratura e il nucleo interno in calcestruzzo. Spesso perciò gli intradossi delle arcate dei ponti erano realizzati con blocchi tra loro imperniati e ingrappati (Fig. 1.25) e si inserivano spine di conci nella muratura di rinfianco tra gli archi così da formare contenitori chiusi per il conglomerato.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 25 - Roma. Ponte Cestio. Sistema di connessione dei blocchi. (da  C. F. Giuliani, L'edilizia nell'antichità, Roma, 1990).

 

 

Roma

Ponte Milvio (109 a. C.), obliquo rispetto al corso del fiume, ha il nucleo in tufo di Grotta Oscura e il rivestimento in sperone e travertino.

Ponte Fabricio (62 a. C.), ha nucleo in blocchi di tufo e di peperino e rivestimento, solo in parte conservato, in blocchi di travertino. Le due grandi arcate sono a sesto leggermente ribassato.

Ponte Elio (134 d. C.)

Rimini

Ponte di Tiberio (14ᆩ d. C.), a cinque arcate costruito in pietra d'Istria, ha lunghezza di m 62,60 e sede stradale di 5 m. Le pile, con inclinazione di circa 11° rispetto all'asse del ponte per assecondare il corso della corrente, sono rastremate verso l'alto e munite di frangiflutti. La fondazione è una piattabanda unica in blocchi lapidei.

Verona

Due delle cinque arcate del ponte della Pietra, distrutto dai Tedeschi nel 1945 e ricostruito nel 1957ᇏ opus quadratum a blocchi legati con grappe metalliche.

Padova

Ponte di S. Lorenzo, di età augustea, in opus quadratum, ha tre arcate a sesto ribassato di cui due attualmente interrate

Narni (Tr)

Ponte d'Augusto (10 d.C.), intatta una delle quattro arcate in travertino

Ascoli Piceno

Ponte di Solestà a una sola arcata, in opera quadrata di travertino

Spoleto (Pg)

Ponte Sanguinario (175 a.C. con restauri di Augusto nel 27 a.C.), due archi in opera quadrata

Vulci (Vt)

Ponte della Badia sul fiume Fiora, I sec. a.C.

Ferento (Vt)

Blera (Vt)

Ponte detto Etrusco ma più probabilmente romano

Benevento

Ponte Leproso sul Sabato, a 4 arcate

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

1.2.19 Teatri romani

 

Cavea sostenuta da due o tre ordini di archi e pilastri, chiusa lateralmente da muri paralleli all'edificio scenico e collegata con questo da corridoi d'ingresso coperti con volte in opus caementicium.

 

Negli elementi del teatro romano si trova una stretta derivazione da quelli del teatro greco, sia pure con importanti innovazioni: il teatro diventa un edificio vero e proprio, isolato, la cui costruzione è svincolata dalla morfologia del terreno.

Prima di raggiungere tale completa indipendenza da situazioni orografiche, la struttura teatrale attraversa, tra la seconda metà del II e la prima metà del I secolo a.C., una fase detta del teatro greco-romano (Fig. 1.26) o ispirato all'architettura greca o italico. In questa tipologia, diffusa nell'Italia centromeridionale, la cavea è ricavata su un pendio, talvolta non naturale, ma formato da un terrapieno almeno parzialmente artificiale (aggestus) sostenuto e regolarizzato da uno o più muri curvilinei, raramente da un sistema di fornici; gli analemmata (muri di sostegno) sono spesso rinforzati da pilastri per sostenere la spinta notevole del terrapieno. La cavea è a forma di ferro di cavallo poco accentuato come nel teatro di Pietrabbondante, o semicircolare come in quello di Gioiosa Ionica. Le gradinate, quasi sempre non conservate, erano forse lignee ad eccezione della proedria (i posti riservati in basso), dotata talvolta di seggi con gli schienali, i cui terminali erano in alcuni casi a elementi zoomorfi, così come le testate dei gradini erano decorate da telamoni (Pietrabbondante, odeon di Pompei, Sarno). I passaggi d'accesso al teatro (parodoi) nella maggior parte dei casi sono ancora scoperti. L'edificio scenico è basso, largo e sempre del tipo a parasceni, dotato talvolta di due ambienti ai lati, che nel teatro romano sono le aule.

Il teatro romano ha origine nel 55 a.C. con la costruzione, in Roma, del teatro di Pompeo. La gradinata per gli spettatori (cavea), ha solitamente la forma di un esatto semicerchio, si compone al solito di ima, media e summa cavea, è suddivisa in più zone (maeniana) ed è sostenuta da potenti strutture di archi e pilastri che formano, come negli anfiteatri, prospetti a due o tre ordini. Il pubblico era portato a ogni ordine di posti da scale separate che sfociano nel centro di ogni settore in appositi vomitoria. La cavea è spesso coronata da una galleria coperta (porticus in summa cavea). L'orchestra del teatro greco, che ospitava il coro, scompare come tale e si riduce a uno spazio semicircolare. L'edificio scenico ha il palcoscenico (pulpitum) non molto sollevato dal piano dell'orchestra (1ǃ,5 m). Il frontescena (scaenae frons) è una struttura architettonica a due o più piani coperta da una tettoia e alta più o meno quanto la cavea. Esso non è più distaccato dalla cavea ma costituisce con essa un unico organismo architettonico. I muri di sostegno (analemmata), paralleli all'edificio scenico, grazie alla copertura in opera cementizia divengono dei veri e propri corridoi (Fig. 1.27). Perciò il teatro romano è un edificio chiuso in cui manca solo una copertura fissa: grandi teli lo potevano coprire provvisoriamente (velaria).

Per la costruzione del teatro Vitruvio (V,6) avverte che si devono iscrivere in un cerchio quattro triangoli equilateri, i cui vertici toccano la circonferenza in dodici punti; la base del triangolo il cui vertice tocca il centro della cavea corrisponde alla fronte della scena, mentre il diametro del cerchio dell'orchestra parallelo alla precedente base corrisponde al podio (pulpitum). L'orchestra è dunque semicircolare e la scena avanza fino a metà del cerchio citato. Per questo tipo di teatro descritto da Vitruvio non si trova una perfetta corrispondenza coi teatri esistenti; tuttavia sembra che egli abbia tenuto presente specialmente i teatri del tipo orientale.

Riguardo alla distribuzione degli edifici teatrali antichi finora scoperti tra le diverse tipologie, un recente censimento (Ciancio Rossetto e Pisani Sartorio, 1994) ha portato a catalogare, fra un totale di 756 teatri, 317 teatri romani, 165 teatri greci, 58 odea, 94 strutture gallo-romane, 122 strutture non classificabili e 60 di questi noti solo per essere citati da fonti letterarie o epigrafiche. I teatri greco-romani attestati da resti archeologici e spesso modificati in tempi successivi alla costruzione, sono circa una dozzina (Pompei, Gioiosa Ionica, Alba Fucens, Pietrabbondante, Teano, Sarno, etc.). In tutta Italia i teatri che, fra tutte le tipologie, risultano meglio conservati, accessibili ai visitatori e comprensibili nella loro struttura, sono meno di 40; alcuni sono all'interno di grandi complessi urbanistici archeologici (Pompei, Ostia, ..).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 26 - Amiternum. Teatro greco-romano.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 27 - Pompei. Teatro grande. Resti dell'edificio scenico in opera laterizia e, a sinistra, ingresso laterale coperto.

 

 

I teatri antichi versano in differenti stati di conservazione a seconda delle tipologie. Nei teatri romani si sono conservate per lo più le sostruzioni della cavea mentre mancano le gradinate; nei teatri greci dell'Italia meridionale e della Sicilia, pur essendo spogliata dei gradini la cavea, ne rimane molto chiara la forma. Gli edifici scenici sono solitamente poco conservati.

 

Pompei (Na)

Teatro grande, da ampliamento in età augustea del teatro ellenistico

Teatro piccolo, coperto (80ᇟ a.C.) usato come odeon

Roma

Teatro di Pompeo (55 a. C.)

Teatro di Marcello (11 a. C.)

Ostia (Rm)

Costruito originariamente in età augustea, in opera reticolata con pilastri in opera quadrata di tufo; alla fine del II sec. d. C. sotto Commodo ricostruito in mattoni;  restaurato pesantemente nel 1927 quando sono state ricostruite per intero quattro delle ventuno arcate del portico laterizio

Aosta

Grandiosa facciata in blocchi di arenaria con contrafforti, di età augustea

Torino

Prima fase della seconda metà del  I d. C., successive ristrutturazioni radicali

Trieste

Inizi del II sec. a. C.

Verona

Teatro di età augustea, muri portanti in opus quadratum di blocchi di tufo, muri radiali di sostruzione della cavea, vòlte e muretti intermedi in opus caementicium con rivestimento in tufelli rettangolari

Vicenza

Teatro Berga, di età augustea con ristrutturazioni in età traianea, in opus vittatum

Brescia

Costruito in file regolari di blocchetti di medolo, in alcune parti con inserzione di filari di mattoni, in età augustea con modifiche strutturali in epoca posteriore a quella flavia

Luni (Sp)

Ventimiglia (Im)

Muri portanti con paramento di blocchetti squadrati di pietra della Turbia alternati a doppi filari di mattoni, della seconda metà del I sec. d. C.

Fiesole (Fi)

Teatro

Volterra (Pi)

Teatro 1 a.C.- 25 d.C.

Pietrabbondante (Is)

Teatro greco-romano del I sec. a. C.

Alba Fucens (Aq)

Teatro greco-romano della fine II sec.-inizio I sec. a. C.

S. Vittorino (Amiternum) (Aq)

Resti di teatro di età augustea.

Chieti

Resti della cavea del I sec. d. C.

Sepino (Cb)

Ferento (Vt)

Teatro di età augustea

Falerone (Falerio Picenus) (Ap)

Teatro I-II sec. d.C.

Todi (Pg)

Resti di antico teatro (40 a.C.)

Spoleto (Pg)

Teatro 25ᇆ d.C.

Gubbio (Pg)

Resti di teatro con due ordini di arcate

Urbisaglia (Mc)

Resti di teatro di età flavia

Villa Potenza (Mc)

Resti di teatro di età traianea

Minturno (Lt)

Teatro della prima età imperiale

Cassino (Fr)

Napoli

Teatro antico del I sec. d. C. in opera laterizia con restauri; dell'inizio del II sec. d. C. sono gli archi di sostegno aggiunti quali rinforzo statico alle strutture           

Ercolano (Na)

Cavea sostenuta da archi e pilastri a doppio ordine, di età augustea e postaugustea

Teano (Ce)

Teatro greco-romano del II sec. a. C.

Benevento

126 d. C., ingrandito da Caracalla tra il 200 e il 210 d.C.

Literno (Ce)

Solo scena, orchesta e  parte della ima cavea, con modifiche di età tardoantonina

Scolacium (Cz)

Teatro romano I sec. a. C. - II sec. d. C.

Taormina (Me)

Odeon, piccolo teatro, di età imperiale

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

1.2.20 Anfiteatri

 

Cortine in opera quadrata o in opera laterizia e riempimento in opera a getto per ordini esterni di arcate e pilastri e per muri radiali collegati da volte rampanti a sostegno della cavea.

 

L'anfiteatro, costruzione tipicamente romana (in Grecia solo Corinto ha un anfiteatro), nasce come edificio destinato ad accogliere gli spettacoli gladiatori. Originariamente in legno, viene poi costruito in muratura in elevazione. La sostituzione della costruzione stabile alla provvisoria struttura di legno è resa possibile dal perfezionamento presso i Romani della tecnica delle volte e comunque gli anfiteatri in pietra sono apparsi (Spectacula di Pompei, del 79 a.C.) dopo la costruzione del primo teatro romano in muratura. Questa  sequenzialità temporale lascia supporre che i princip" seguiti per la costruzione della cavea degli anfiteatri in pietra siano derivati da quelli già adottati per la cavea in muratura del teatro romano, con la differenza che, mentre il teatro possiede accessi naturali nel punto di incontro di cavea e palcoscenico, nell'anfiteatro, oltre alle scale destinate agli ordini superiori, doveva essere realizzato un sistema di corridoi che, passando sotto la cavea, conducessero all'interno dell'edificio. La  costruzione dell'anfiteatro risultava, perciò, dalla trasposizione sull'ellisse del sistema delle sostruzioni radiali inclinate verso l'interno già usato per il semicerchio. Da tale forma deriva che, per individuare anche nell'anfiteatro un punto centrale unico, gli spazi cuneiformi delle sostruzioni, a causa della forma ellittica e della necessità di avere costante l'apertura delle arcate della cinta esterna di facciata, dovevano essere molto più robusti lungo l'asse maggiore che non lungo l'asse minore. I muri radiali sono collegati mediante volte a botte.

Sono rintracciabili sostanzialmente due tipologie di anfiteatro. Una prima forma, quella dell'anfiteatro su terrapieno (Pompei), a somiglianza del teatro greco, cerca di utilizzare le disponibilità naturali offerte dalla morfologia del terreno: solo dietro al primo e più basso ordine di posti, l'ima cavea, corre un passaggio in muratura a volta a guisa di corridoio; per il resto, la base su cui poggiano tutti gli altri ordini di posti consiste in un terrapieno sostenuto per metà dal muro di cinta della città e dall'altra da un muro circolare rinforzato da sostegni in muratura, collegati l'uno all'altro per mezzo di arcate così da poter offrire una sufficiente resistenza alla pressione della massa di terra.

L'altra forma, generalmente posteriore, più rigorosamente architettonica, è quella in cui la cavea poggia su muri radiali, spesso uniti da volte (Fig. 1.28) che formano passaggi anulari, a diversi piani ed altezze, intorno all'arena, collegati tra loro mediante gradinate e cunicoli. Il numero dei corridoi concentrici (Fig. 1.29) variava secondo la grandezza dell'anfiteatro.

Generalmente gli anfiteatri hanno due ordini di arcate, cui si aggiunge talvolta un piano attico con finestre rettangolari o ad arco. Pochi anfiteatri hanno tre piani di arcate, come quello di Capua e in Roma, il grandioso Anfiteatro Flavio o Colosseo.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 28 - Amiternum. Anfiteatro. Muri radiali collegati da volte a botte a imbuto.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 29 - Amiternum. Anfiteatro. Corridoio sotto l'ima cavea.

 

 

In quest'ultimo la tipologia anfiteatro trova la sua più monumentale espressione. L'anello esterno si sviluppa in altezza su quattro piani. I primi tre sono ad arcate e sono ornati con mezze colonne d'ordine rispettivamente dorico, ionico e corinzio; il quarto piano non ha archi ma è suddiviso in scomparti da lesene, anch'esse corinzie, e ogni due scomparti si apre una finestra quadrata. Il primo piano è alto m 10,50, gli archi hanno un'altezza di m 7,10 e sono larghi m 4,30. Il secondo piano, di ordine ionico, è alto m 11,85 con archi che misurano m 6,50 di altezza e m 4,30 di larghezza. Il terzo piano, di ordine corinzio, è alto m 11,60 ed i suoi archi sono alti m 6,40 e larghi m 4,30. Le lesene corinzie dell'ultimo piano, compreso il piedistallo, sono alte m 13,90. Ciascuno dei tre ordini di arcate contava 80 fornici.

Il materiale usato per l'anello esterno e per buona parte anche internamente è il travertino: si è calcolato che ne siano stati impiegati oltre 100.000 metri cubi. I massi sono connessi senza malta e sono tenuti insieme da perni metallici: si  è calcolato che il ferro necessario per le grappe superasse le 300 tonnellate. G. Cozzo ha ricostruito come segue le fasi della costruzione del Colosseo. La presenza del bacino artificiale neroniano, svuotato dell'acqua, permise di ridurre al minimo i lavori di scavo per le fondamenta: queste costituirebbero una sorta di quinto piano sotterraneo, costituito da pilastri di travertino, poggiante forse a sua volta su di un'immensa platea anulare di calcestruzzo. In un primo tempo fu alzata una vera e propria gabbia portante, costituita dai pilastri in travertino menzionati, collegati da archi in muratura in corri­spondenza dei vari piani e da volte rampanti sulle quali avrebbe poggiato la cavea.

L'edificio, colpito da incendi e terremoti, ha subito vari interventi di restauro. Ben documentati sono i restauri eseguiti dopo i terremoti del 429 e del 442. Danni sono stati successivamente causati dai terremoti dell'851, del 1231 e del 1255.

Spesso anfiteatri da poco collaudati dovevano essere soggetti a restauri: il fenomeno è tipico tra l'età giulio-claudia e quella traiano-adrianea e non è episodico che venissero applicate le norme emanate da Tiberio in seguito al crollo dell'anfiteatro presso Fidene (Svet., Tiberio, 40) vincolanti gli appalti per queste opere pubbliche. Talvolta il motivo dell'intervento di consolidamento era da ricercarsi nell'accresciuta portata di spettatori che l'edificio doveva ospitare: un esempio era la costruzione di una spina di supporto alla media cavea che incamicia il principale muro anulare e aggancia il sistema delle strutture voltate di supporto alle gradinate.

 

Pompei (Na)

Spectacula, 79  a. C.

Roma

Anfiteatro Flavio o Colosseo, 80 d.C., tre ordini di arcate

Anfiteatro Castrense, fine dell'età severiana, originariamente a tre ordini, ridotto ora al solo primo piano, costruito interamente in mattoni tranne pochi elementi in travertino

S. Maria Capua Vetere (Capua) (Ce)

Anfiteatro Campano, fine I - inizio II sec. d. C., tre ordini di arcate

Pozzuoli (Na)

Anfiteatro Flavio (I sec. d.C.)

Anfiteatro antico (fine II sec. a. C.),  decina di arcate di sostegno della cavea, in opera incerta di tufo

Cuma (Na)

Anfiteatro della fine del II sec. a. C.

Nola (Na)

Anfiteatro del I sec. a.C. ristrutturato fino al III sec. a.C.

Verona

Arena, primi due decenni del  I sec. d. C.

Padova

Anfiteatro della prima metà del I sec. d. C., in opus vittatum di pietra bianca dei Berici

Rimini

Anfiteatro (119끒 d. C.), due arcate del porticato esterno in muratura laterizia in opera a sacco con doppia cortina

Arezzo

Anfiteatro del  I sec. d. C.

Luni (Sp)

Anfiteatro dell'età degli Antonini

Albenga (Sv)

Anfiteatro forse del II sec. d. C. a struttura con paramento in blocchetti squadrati

Sutri (Vt)

Anfiteatro della seconda metà del I sec. a. C.

Ancona

Anfiteatro di età augustea, in opera laterizia e reticolato; contrafforti della prima metà del II sec. d. C. con paramento in opera reticolata alternata a fasce listate

Ascoli Piceno

Scarsi resti di anfiteatro della fine del I sec. a. C.

Urbisaglia (Mc)

Anfiteatro del II sec. d. C.

Falerone (Falerio Picenus) (Ap)

S. Vittorino (Amiternum) (Aq)

Alba Fucens (Aq)

Anfiteatro di età imperiale

Teramo

Anfiteatro del IV sec. a.C.

Vasto (Ch)

Anfiteatro I-II sec. d. C.

Tivoli (Rm)

Tuscolo (Rm)

Albano (Rm)

Anfiteatro di età severiana

Spello (Pg)

Anfiteatro del  I sec. d.C. in opus vittatum

Spoleto (Pg)

Resti di anfiteatro del II sec. d. C., in opera a sacco rivestita da piccoli blocchi

Otricoli (Tr)

Anfiteatro dell'epoca di Augusto, in opera reticolata, scavi condotti nel 1958

Terni

Anfiteatro (32 d. C.), opus vittatum in pietra sponga delle Marmore e opera reticolata policroma di pietra scura e calcare bianco

Paestum (Sa)

Resti di anfiteatro con parte inferiore in mattoni e parte superiore in blocchi di calcare

Grumentum (Pz)

I sec. a. C., resti del muro esterno e del corridoio anulare, paramenti in opera reticolata

Venosa (Pz)

In due fasi a cominciare dalla prima metà del I sec. d. C.

Lecce

Anfiteatro della prima metà del II sec. d. C., nel periodo degli Antonini

Catania

Anfiteatro del I sec. d. C.

Termini Imerese (Pa)

Anfiteatro

Siracusa

Anfiteatro in parte scavato nella pietra del I o III sec. d. C.

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

1.2.21 Tipologie abitative (casa insula, domus, villa, …)

 

Casa insula: caseggiato di abitazione collettiva in muratura di mattoni o in altra tecnica economica elevato fino a tre piani: archi e volte al pianterreno, balconi a sbalzo e muri finestrati.

Domus e villa: dimore con ricca e varia esemplificazione di architettura curvilinea.

 

Le diverse tecniche murarie impiegate nella costruzione delle abitazioni oltreché degli edifici pubblici sono inquadrabili, con riferimento alle caratteristiche strutturali, in classi di muratura distinte a partire dalle caratteristiche del pietrame impiegato dapprima per tutto lo spessore dei muri e poi per le cortine.

La tipologia più antica, che però segna il passo, per importanza, rispetto ai precedenti modi di edificare, è l'opus quadratum, opera fatta di conci lapidei parallelepipedi "a strati alterni" ovvero disponendo strati alterni di tutti ortostati e di tutti diatoni. Le dimensioni dei conci sono spesso proporzionate: i lati maggiori corrispondono a due o tre volte la misura dei lati minori.

Andando gradualmente scomparendo nell'edilizia romana l'antica tecnica dell'opus quadratum per lasciare posto al nuovo opus caementicium, già dalla fine della Repubblica il muro risulta costituito di due cortine (crustae) e di un nucleo interno (structura caementicia) secondo il procedimento "a sacco": i due paramenti esterni fungevano da casseforme a perdere per il nucleo centrale.

L'opus caementicium era costituito da rottami di pietra o di mattone mescolati con calce, sabbia e acqua: caementicium significa perciò fatto dal "caementum". A tale componente della miscela non è da attribuirsi il significato moderno di legante, assunto dalla parola cemento solo alla fine del XVIII sec., quando al conglomerato è stato dato il nome odierno di calcestruzzo, bensì il significato di "rottame di pietra", "pietra grezza" - l'odierno inerte grosso del calcestruzzo - in quanto caementum veniva, nel latino classico, dal verbo caedo ossia "tagliare a pezzi".

Nelle opere idrauliche o comunque esposte all'azione dell'acqua la sabbia era sostituita in tutto o in parte dalla pozzolana di origine vulcanica (di Baia o di Cuma), essendo nota la capacità del calcestruzzo di calce-pozzolana di indurire sott'acqua, come testimoniato da Vitruvio a proposito di costruzioni marittime (De Arch., V, XII). Vitruvio, nel II libro, dedicato alle caratteristiche dei materiali, fornisce tutte le indicazioni per la corretta scelta dei componenti della miscela e suggerisce in quali rapporti mescolarli. Le raccomandazioni circa la messa in opera (Vitruvio, Plinio il vecchio), erano di battere e costipare il calcestruzzo, soprattutto nelle fondazioni, con mazze di ferro. Il calcestruzzo dei Romani era perciò molto simile all'attuale calcestruzzo; le più grandi differenze, al di là delle ovvie diversità nelle modalità di miscelazione, di trasporto e di costipazione, riguardano il tipo di legante e gli inerti utilizzati. Nell'opus caementicium la funzione di legante, svolta nel moderno calce­struzzo dal cemento (Portland, pozzolanico o d'altoforno), era demandata alla calce o alla calce unita a pozzolana; gli inerti erano rappresentati dalla sabbia e da grossi rottami - Vitruvio suggerisce non più grossi di una mano - di pietre o di mattoni.

Il più antico tipo di paramento per muri a sacco con nucleo in opus caementicium, è l'opus incertum, inquadrabile nelle murature ordinarie di pietrame naturale a pezzatura irregolare (Cairoli, 1990) in quanto costituito da tufelli immersi nel nucleo del muro, con la parte in vista di forma irregolare (Fig. 1.30): la forma degli scapoli dipendeva dalla frantumazione naturale o dalla conformazione del banco di estrazione. Per scongiurare lesioni, si evitavano gli allineamenti sulla verticale.

Nella muratura di ciottoli, in genere preliminarmente spezzati per avere almeno una faccia ruvida, erano necessari frequenti spianamenti per ripartire i carichi sull'intera sezione e perciò, già in età augustea, si nota l'uso di cinture orizzontali di laterizio.

Gli scapoli del paramento esterno vanno progressivamente regolarizzandosi, così da potersi individuare una fase, detta dell'opus quasi reticulatum, collocabile all'inizio del I sec. a. C.: è datato 80 a.C. l'Odeon (oggi Teatro piccolo) di Pompei con il suo opus quasi reticulatum di lava (Fig. 1.31). In questo i giunti fra tufello e tufello tendono a regolarizzarsi in una linea continua, sia pure spezzata.

Alla successiva classe delle murature ordinarie di pietrame naturale a pezzatura regolare appartengono le strutture a blocchetti parallelepipedi disposti ad assise orizzontali, la rara spinapesce verticale (strada di Pomata a Tivoli) e quella, cui diede nome già Vitruvio (II,8), dell'opus reticulatum.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 30 - Grumentum. Muro in opus caementicium.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 31 - Pompei. Odeon o teatro piccolo. Muro del frontescena in opus quasi reticulatum di lava.

 

 

L'uso di pietrame regolare per le cortine si comincia a diffondere prima come blocchetti parallelepipedi e subito dopo, già nel II sec. a.C., nell'opus reticulatum, come cubilia: piccoli elementi a forma di piramide tronca, con la base quadrata (lato di 5lj cm) e spianata in vista, di materiali diversi, disposti a formare una trama a forma di rete con lati inclinati di 45° rispetto all'orizzontale (Fig. 1.32). Il primo esempio datato di opus reticulatum è dato dal Teatro di Pompeo, inaugurato in Roma nel 55 a.C.; fabbriche in opus reticulatum si hanno fino all'età degli Antonini.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 32 - Ercolano. Muro sul decumano inferiore. A destra opus reticulatum policromo.

 

 

I vantaggi del reticolato erano soprattutto nella standardizzazione del materiale che rendeva più fluido il lavoro di tessitura delle cortine. Tuttavia Vitruvio riponeva in quest'opera una fiducia minore rispetto a quella incerta, motivata sulla base della consistenza delle sezioni interne alle due strutture: l'opera reticolata, benché più bella, comportava un aumento della quantità di malta man mano che si penetra nel nucleo che, consentendo una maggiore compressibilità del riempimento rispetto alle cortine, determinava più facilità di distacco. Anche per l'opera reticolata, come già per l'opera incerta, i sistemi di ammorsatura, le piattabande e gli archi erano costituiti da blocchetti parallelepipedi o a cuneo della stessa pietra, da laterizi o dalla loro alternanza nello schema detto opus mixtum.

L'opera mista, durata dal 50 a.C. alla fine del II sec. d.C., consisteva nell'interrompere con fasce generalmente orizzontali di laterizio murature in opus reticulatum. Il numero e l'alternanza dei ricorsi di mattoni variano con grande frequenza. Si trova in strutture di grande impegno statico eseguite con materiale di prima mano, ma anche in manufatti in cui si reimpiegava pietrame derivante da demolizioni, quali cubilia di reticolato allettati con un lato di base in orizzontale.

Lo schema successivo, opus vittatum, si diffonde inizialmente in alcune regioni periferiche della penisola e in alcune province in luogo del reticolato, apparendo già a Pompei ed Ercolano, soppianta il reticolato anche nell'Italia centrale dal III sec. in poi e diviene la muratura caratteristica del tardo Impero in tutto il mondo occidentale, con prosecuzione dell'uso anche nel primo Medioevo. In esso la cortina poteva essere costituita di quadrelli di sola pietra disposti in assisi orizzontali, simili a bende, vittae, oppure di blocchetti lapidei alternati a liste di uno o più assisi di laterizio, nell'opus vittatum mixtum o opera listata (Fig. 1.33). In questo caso i ricorsi di mattoni costituivano progressivi piani di assestamento dell'intera struttura.

In opus vittatum mixtum fatto alternando uno strato orizzontale di piccoli conci lapidei con due strati di mattoni sono spesso in Pompei i rifacimenti di angoli di edifici (Fig. 1.34) e di stipiti di aperture (Fig. 1.35).

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 33 - Ercolano. Casa Sannitica. Muro interno in opus vittatum mixtum.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 34 - Pompei. Angolo di edificio rifatto in opus vittatum mixtum.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 35 - Pompei. Stipiti di aperture rifatti in opus vittatum mixtum.

 

 

Alla muratura ordinaria di pietrame artificiale appartengono le strutture interamente in mattoni cotti (opus latericium), con le sole cortine in mattoni cotti (opus testaceum) e quelle di pezzame di tegole da tetto.

I mattoni cotti in fornace rappresentano la grande innovazione della tecnica edilizia romana. Erano fabbricati con argilla impastata con acqua e spesso con sabbia, paglia o pozzolana fine in modesta quantità l'impasto era compresso a mano in una forma di legno generalmente quadrata di lato pari al bessale (19ᆨ cm cioè 2/3 di piede romano), pedale (ca. 30 cm cioè un piede), sesquipedale (ca. 45 cm cioè 1,5 piedi) e bipedale (ca. 60 cm cioè 2 piedi). Inizialmente erano messi ad asciugare al sole, poi essiccavano al coperto in zona ventilata e infine, appilati di taglio, cuocevano nella fornace sugli 800 gradi. Il loro spessore varia da 4 a 2,8 cm, decrescendo dall'età flavia a quella severiana. La consistenza porosa e leggermente scabra dei mattoni facilitava l'aderenza con la malta nei piani orizzontali; in più talvolta erano praticate sulla loro superficie, prima della cottura, solcature di vario disegno.

La malta era ottenuta dalla mescola di una parte di calce con sabbia in 3 parti se di cava, in 2 parti se di fiume o di mare. Spesso si impiegavano malte pozzolaniche anche quando non occorreva necessariamente un composto idraulico, allo scopo di migliorare la riuscita del legante e di evitare gli inconvenienti delle gelate durante la costruzione. Riguardo alla qualità delle malte, si riconosce unanimemente il primato delle malte romano-laziali rispetto a quelle pompeiane.

Spesso la struttura in laterizio, anziché essere ricoperta da intonaci, era lasciata a vista oppure messa in ancora maggiore risalto dalla stilatura dei letti di malta, cioè dall'incisione con l'orlo della cazzuola o con uno stilo.

Il ricorso ai muri di mattoni per l'intero spessore (opus latericium) era obbligato nelle strutture alle quali era richiesta un'elevata resistenza alla compressione. Nella parte interna del muro o della colonna, per strati orizzontali, erano collocati frammenti il più possibile accostati (Fig. 1.36). La quantità di malta, sia nei letti che nei giunti verticali, era ridotta.

Nell'opus testaceum, invece, i mattoni sono dimezzati diagonalmente a triangolo e disposti con la faccia del taglio in vista in modo da ammorsarsi bene col nucleo interno in opus caementicium: la struttura risultante era meno resistente ma più economica della muratura interamente laterizia e tuttavia risultava tutelata nei confronti di scollamenti delle cortine dal nucleo grazie alle estremità cuspidate dei mezzi mattoni annegate nel nucleo (tutela questa, che non si sarebbe avuta con l'uso di mattoni interi quadrati) e grazie all'utilizzo di ricorsi di bipedali. Tale tecnica, diffusasi a partire dal I sec. a. C., consisteva nel mettere in opera bipedali interi molto sottili per incatenare le cortine al nucleo, per ripartire più efficacemente i carichi ma anche per livellare i piani, come proverebbe l'usanza di contraddistinguerli con vernice rossa.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 36 - Alba Fucens. Disposizione del materiale laterizio in una colonna.

 

 

I mattoni erano usati interi negli archi, nelle volte e negli archi di scarico. Questi ultimi erano strutture cieche inserite nello spessore di una parete con la funzione di convogliare i carichi sovrastanti su piedritti adeguatamente separati al fine di proteggere una zona delicata, per motivi diversi (presenza di finestre ed altre aperture, di architravi di legno,…) oppure al fine di dirigere le spinte in un punto particolare. In muri di modeste dimensioni, cioè dello spessore di non più di due piedi romani, questi archi sono strutturali, nel senso che abbracciano l'intero spessore del muro; in muri più spessi si tratta di elementi superficiali ovvero limitati al paramento esterno e che quindi non arrivano al nucleo cementizio.

Il primo esempio di opus testaceum è la casa di Tiberio sul Palatino; da quel momento l'opera laterizia prende il sopravvento nelle fabbriche urbane, relegando l'opera reticolata agli edifici privati e a quelli di campagna.

Il materiale laterizio è tipico in Pompei dei restauri eseguiti dopo il terremoto del 62 d.C. con mattoni sottili e ben arrotati. Tale utilizzo, ben visibile in tutta la città dissepolta non fosse altro che per l'evidenza cromatica, consistette nella ricostruzione di intere pareti, come nel frontescena del Teatro grande nella sistemazione degli stipiti di aperture, nella realizzazione di archi addossati a strutture bisognose di rinforzo, come nella galleria coperta a volta, crypta, sotto la media cavea dell'Anfiteatro (Fig. 1.37), di contrafforti (Fig. 1.38) e spessissimo nel rifacimento di angoli con ammorsature a dente o a dente di sega.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 37 - Pompei. Archi in mattoni di fodera della crypta dell'anfiteatro.

 

 

Talvolta, in edifici importanti e per i quali l'opera di restauro era pressoché al termine al momento dell'eruzione del 79 d.C., la muratura di mattoni si trova rivestita di decorazioni di stucco a dare un finto opus quadratum, come succede per la cella del Tempio di Iside (Fig. 1.39).

Alla classe della muratura ordinaria di pietrame naturale e artificiale a piloni resistenti, (opus Africanum o opera litica) appartengono quelle strutture formate da grandi blocchi lapidei disposti verticalmente ed orizzontalmente e riempendo gli spazi vuoti tra i massi di materiale minuto (Fig. 1.40). In questa tecnica, diffusa soprattutto nell'Italia meridionale e in Sicilia, rientrano anche quelle fatte di pilastri di grandi blocchi di pietra collocati in punti di maggiore sollecitazione e uniti a pannelli di muratura lapidea.

 

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 38 - Ercolano. Insula VII, cardo III.  Contrafforte in laterizi.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 39 - Pompei. Cella del Tempio di Iside rifatta in falso opus quadratum.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 40 - Pompei. Via dell'Abbondanza. Muro in opus Africanum.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 41 - Ercolano. Casa a Graticcio. Corpo di fabbrica occupante parte del balcone.

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 42 -  Ercolano. Insula III. Prospetto sul cardo IV della Casa a Graticcio.

 

 

Una tecnica ed un uso di materiali più poveri della comune tecnica muraria è rappresentato dall'opus craticium, che si rinviene in case di tipo popolare ed economico: essa consiste nel comporre, con travi di legno di solito spianate, a sezione quadrata di 10ᆠ cm, o addirittura con un graticciato di canne, una vera e propria armatura e nel riempire tale struttura lignea a telaio con muratura incerta cementata con abbondante calce (Fig. 1.41). Vitruvio avrebbe voluto che tale tecnica non fosse stata inventata ma ne giustifica l'uso per ragioni di celerità, di scarsa portanza del terreno o in situazioni di fuori squadra, pur ammettendone il grave inconveniente di essere facile agli incendi e all'umidità del sottosuolo nonché di produrre crepe negli intonaci, a causa del differente coefficiente di assorbimento dello scheletro ligneo rispetto alla tamponatura. Per ovviare a tale inconveniente Vitruvio raccomandava di intonacare tutto col fango, di applicare due strati intermedi di canne disposte una volta nella direzione verticale ed un'altra in quella orizzontale, fissate con chiodi a testa larga (claves muscarii) e quindi di procedere alla normale intonacatura con malte di sabbia e di marmo.

L'esempio più significativo di tale tecnica conservatosi fino a noi è la Casa a Graticcio alla insula III di Ercolano (Fig. 1.42): se si eccettuano le tre colonne in laterizio che sorreggono il balcone sul cardo IV e i muri al piano terra in opera vittata tra gli ingressi ai numeri 13, 14 e 15, essa è integralmente costruita in opus craticium. In opus craticium sono talvolta singoli tramezzi in edifici costruiti con altre tecniche, come si vede ad esempio nel Collegio degli Augustali, alla insula VII di Ercolano, sulla destra entrando dalla porta sul cardo III.

 

Roma

Ostia (Rm)

Tivoli (Rm)

Albano (Rm)

Viterbo

S.Maria Capua Vetere (Ce)

Pompei (Na)

Ercolano (Na)

Baia (Ce)

Pozzuoli (Na)

Capri (Na)

Piazza Armerina (En)

 

Indice del Capitolo 1.

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1.2.22 Colonne coclidi

 

Colonne isolate con fusto, alto circa 30 m, scavato all'interno per ospitare una scala a chiocciola e costituito di enormi rocchi marmorei sovrapposti a secco la cui connessione era assicurata, oltre che dalla grande superficie di contatto, da perni alloggiati in appositi fori.

 

Inaugura la tipologia monumentale della colonna coclide, colonna isolata decorata da un fregio a spirale e contenente all'interno una scala a chiocciola, la colonna Traiana, concepita probabilmente da Apollodoro di Damasco, l'architetto del foro Traianeo e terminata nel 113 d.C. dopo cinque anni di lavori.

Le dimensioni della colonna sono notevoli: lo zoccolo su cui poggia, composto di otto blocchi in quattro filari, è alto m 5,37; il plinto in un sol blocco è alto m 1,68; il fusto è alto m 26,62 e aggiungendovi toro e capitello raggiunge m 29,78 cioè esattamente cento piedi romani (colonna "centenaria"); infine la base cilindrica della statua è alta m 4,66.

Il fusto si compone di 17 enormi rocchi di marmo Carrara sovrapposti a secco del diametro di m 3,83 e di m 1,56 di spessore; presenta, a circa un terzo dall'imoscapo, il tradizionale rigonfiamento (èntasis) utile a migliorare l'effetto ottico, data la notevole altezza.

Il rilievo esterno a nastro è stato eseguito quando la colonna era già stata montata. La decisione di rendere la colonna accessibile mediante una scala interna deve essere stata presa quando il modello disegnato già era compiuto: ciascuno dei blocchi della colonna è scavato internamente dai gradini della scala a chiocciola. La connessione fra un rocchio e l'altro era assicurata, oltre che dall'ampia superficie di contatto, da perni alloggiati in appositi fori (Fig. 1.43).

Ad imitazione del modello traianeo fu costruita, entro il 193, la colonna di Marco Aurelio, anch'essa centenaria (fusto di m 29,60 con diametro inferiore di m 3,80 e superiore di m 3,66, senza èntasi) e in rocchi marmorei percorribili al loro interno. Il basamento è costituito da una parte inferiore di quattro filari di blocchi di marmo, alta m 6,14 e una superiore di tre filari, alta m 4,38. Il fusto si compone di 19 blocchi comprendenti base e capitello e di un blocco cilindrico di sostegno alla statua posta in cima.

L'ultima delle colonne onorarie del Foro Romano è la colonna di Foca, rifatta nel 608 con materiale più antico, probabilmente del II sec. d. C..

Le colonne coclidi si differenziano dalle colonne doriche sia per il materiale strutturale (marmo in luogo di pietre porose) sia per le dimensioni. Infatti, mentre da un lato le dimensioni in pianta maggiori comportano blocchi molto più tozzi, dall'altro le notevoli altezze rendono le colonne coclidi, prese nel loro insieme, molto più snelle. Tali colonne evidenziano dissesti senz'altro legati a eventi sismici, come dimostrato dagli spostamenti dei fregi che ricoprono i rocchi della colonna Antonina. I fregi documentano chiaramente spostamenti relativi diversi (per alcuni punti gli spostamenti sono prevalentemente radiali, per altri tangenziali) dei rocchi contigui dovuti ad urti durante il moto sismico innescati da rotazioni intorno a centri istantanei localizzati in punti differenti sulla superficie di appoggio.

 

Roma

Colonna Traiana (113 d.C.)

Colonna di Marco Aurelio (193 d.C.)

Colonna Foca (608 d.C.)

 

 

 

Fig. 1. SEQ Fig. \* ARABIC 43 - Roma. Colonna Traiana come rappresentata in spaccato da un'incisione di G. B. Piranesi.

 

 

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1.3 Glossario

 

Abaco

Elemento sottile a pianta generalmente quadrilatera posto nella parte superiore del capitello, su cui poggia direttamente l'architrave. Nel capitello dorico è un parallelepipedo a pianta quadrata, negli altri ordini si arricchisce di elementi ornamentali.

 

Analèmmata

Nel teatro greco sono i due muri di sostegno del terrapieno artificiale realizzato per ciascun lato a chiusura della cavea lungo i passaggi laterali (pàrodoi).

 

Antis (tempio in)

Detto di tempio nel quale i due muri laterali della cella continuano fino a chiudere lateralmente il pronao.

 

Apodyterium

Ambiente delle terme romane rettangolare o quadrato, eventualmente absidato, coperto con volta a botte o a crociera, non riscaldato, attrezzato di panche, nicchie e mensole e destinato a spogliatoio.

 

Caldarium

Ambiente delle terme romane destinato a sala per il bagno caldo e perciò caratterizzato dalla presenza di una o più vasche. Negli esempi più antichi e semplici è a pianta rettangolare con abside su uno dei lati corti; nelle costruzioni termali maggiori è a pianta poligonale o circolare con eventuali absidi e copertura a cupola o poliabsidata con volte a crociera o a catino.

 

Cimasa

Cornice aggettante di coronamento terminale del tetto di tempio dorico.

 

Concio

Blocco di pietra partecipe di una struttura muraria lavorato in modo da assumere una forma più o meno regolare.

 

Crepidoma

Al pari del termine crepidine, indica lo zoccolo, il basamento del tempio costituito a sua volta di più gradinate ottenute da stese di blocchi lapidei.

 

Decumano

Strada principale dell'impianto urbano romano orientata da est a ovest.

 

Diatono

Nome (dal greco con significato "che si estende da una parte all'altra") che indica uno dei modi di disporre i blocchi usato dai Greci nell'opera quadrata specialmente in età classica fino a tutto il VI sec. a.C.. In particolare per diatono si intende il muro composto di una sola cortina, con blocchi che occupano tutto lo spessore del muro. Lo pseudo-diatono, usato nell'età repubblicana a Roma, è pure ad una sola cortina, ma con i blocchi alternati per testa e per taglio: consiste quindi di un filare con blocchi che vanno da una parte all'altra e in un altro filare con due blocchi affiancati nel senso della lunghezza.

 

Dromos

Corridoio di accesso ad una tomba.

 

Echino

Elemento dei capitelli dorico e ionico posto sotto l'abaco, di profilo curvilineo convesso. Inizialmente, nei capitelli dorici, esso ha forma molto sporgente e compressa; nei capitelli ionici diviene più alto, con un'ampia curvatura e decorazioni a intaglio.

 

Emplecton

Nome (dal greco con significato di "avviluppare") di una tecnica muraria greca del tardo periodo descritta da Vitruvio e da Plinio come costituita da due cortine di lastre piatte il cui spazio intermedio era riempito da una miscela di frammenti di pietre rozze e malta e perciò analoga all'opus caementicium.

 

Frigidarium

Ambiente delle terme romane destinato a stanza per i bagni freddi. Solitamente ha pianta rettangolare su un lato della quale è collocata la vasca per il bagno freddo ad immersione.

 

Frontone

Porzione triangolare della facciata dei templi greci delimitata in basso dalla cornice orizzontale (gèison) e in alto dai rampanti, cornici oblique la cui origine deriva dalla forma a doppio spiovente della copertura dei templi.

 

Imoscapo

Estremità inferiore del fusto di una colonna. Il raggio della colonna misurato all'imoscapo è assunto come modulo nell'ordine classico.

 

Ipotrachelio

Termine (l'etimologia è nella composizione di due parole greche significanti "sotto" e "collo") che indica la membratura terminale superiore del fusto di una colonna, sotto il collarino, corrispondente alla massima rastremazione.

 

Isodomo

Termine (l'etimologia è nella composizione di due parole greche significanti "uguale" e "filare di pietre") che indica uno dei modi di disporre i blocchi lapidei usato dai Greci nell'opus quadratum, soprattutto nell'età classica, con filari tutti di uguale altezza e spessore, in genere su due cortine riempite nel mezzo con materiale vario. La maniera pseudoisodoma era, invece, a filari di altezze disuguali ma uniformi per ogni filare.

 

Laconicum

Ambiente delle terme romane destinato a sala per il bagno d'aria calda. Ha pianta circolare, eventualmente con absidi o nicchie, è coperto a cupola o a calotta troncoconica con aperture nella parte alta e si trova esposto per lo più verso S e SO.

 

Lesena

Elemento verticale di pareti con l'aspetto e la conformazione di un mezzo pilastro o di una mezza colonna sporgente dalla parete stessa e avente funzione di aiuto strutturale o di sola decorazione.

Metopa

Spazio quadrangolare compreso tra i triglifi nel fregio dorico.

 

Opistodomo

Ambiente posteriore della cella di un tempio.

 

Ortostata

Lastra di pietra verticale con cui, specie nell'architettura greca, si costruiva il filare inferiore dei muri, di altezza doppia o tripla dei filari superiori. Gli ortostati generalmente erano posti in due file a costituire le facce interne ed esterne del muro, lasciando una piccola intercapedine vuota o uno spazio maggiore, che veniva poi riempito.

 

Pàrodoi

Passaggi di accesso al teatro situati tra la cavea e la scena. Nel teatro di tipo greco, quando cavea e scena sono parti separate, i parodoi sono scoperti e permettono di accedere direttamente all'orchestra; nel teatro greco-romano e definitivamente in quello romano divengono dei veri e propri corridoi grazie alla copertura a volta in opus caementicium costruita sugli analemmata e sui paralleli muri dell'edificio scenico.

 

Periptero

Termine usato da Vitruvio per indicare il tempio classico avente la cella interamente circondata da una fila di colonne, solitamente 6 sui lati corti e 11 sui lati lunghi nell'ordine dorico maturo.

 

Peristasi

Colonnato che circonda un edificio.

 

Porticus post scaenam

Portico posto alle spalle del teatro e destinato al pubblico durante gli intervalli degli spettacoli.

 

Pronao

Spazio tra l'ingresso del tempio e la cella.

 

Prostilo

Edificio templare con colonne solo in facciata.

 

Sima

Gocciolatoio che corona la trabeazione degli edifici sui frontoni e sui lati.

 

Stilobate

Base della colonna nel tempio greco e poi nel tempio classico romano. Inizialmente il termine indicava la base di ogni singola colonna; in età matura è stato esteso al piano d'appoggio unico di tutte le colonne del tempio e anche al basamento gradinato del tempio stesso.

 

Tepidarium

Ambiente delle terme romane destinato a sala per bagni tiepidi, generalmente a pianta centrale ma di dimensioni ridotte rispetto agli altri ambienti.

 

Tetrapilo

Termine (l'etimologia è nella composizione di due parole greche significanti "tetra" e "porta") associato a quei monumenti a pianta quadrata con passaggio incrociato a quattro porte, impostati in genere al punto d'incrocio di due vie intersecantesi ad angolo retto, così da assumere la forma di archi quadrifronti i cui piloni vengono decorati con nicchie, bassorilievi, colonne o lesene. L'origine dell'arco trionfale tetrapilo è forse orientale; appare a Roma alla fine del I sec. d.C. per rimanere in uso fino al tardo impero.

 

Tholos

Edificio a pianta centrale.

 

Timpano

Nella facciata del tempio è il muro di chiusura triangolare, privo di funzione portante, posto immediatamente sotto alle linee di gronda inclinate; benché spesso usato come sinonimo di frontone, timpano indica perciò solo la parte interna del frontone, che è invece tutto un insieme strutturale.

 

Toro

Modanatura convessa di profilo semicircolare.

 

Trabeazione

Termine (dal latino trabs, trave) che indica l'insieme delle membrature orizzontali poste al di sopra delle colonne del tempio avente la duplice funzione di sostenere le travature del tetto raccordandole con le colonne e di proteggere dalla pioggia le sottostanti strutture con le sue cornici aggettanti. Nel tempio dorico risulta formata di tre elementi sovrapposti: l'architrave, il fregio e la cornice con gocciolatoio o fascia sporgente di protezione e cimasa.

 

Triglifo

Ornamento architettonico quadrangolare scanalato verticalmente che si alterna nel fregio dorico alle metope.

 

 

Indice del Capitolo 1.

Indice della Monografia

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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